L'ultimo Abbagnano.
Il compito del filosofo nell'età dell'incontro fra le culture e l'idea di una morale planetaria.

Che Abbagnano sia una delle maggiori figure della filosofia e della cultura italiana del Novecento è un fatto noto. Altrettanto risaputo è che la sua Storia della filosofia e il Dizionario di filosofia siano considerati, nel loro genere, fra i contributi migliori a livello internazionale.

Tuttavia, sebbene egli occupi un posto di primo piano nel pensiero filosofico del secolo scorso e sebbene i suoi manuali di storia della filosofia (e quelli aggiornati e ampliati da chi scrive) siano tuttora i più diffusi nelle scuole del nostro Paese1 – e quindi il suo nome continui a circolare con autorevolezza nei licei e nelle università – della vita del filosofo salernitano non si conosce molto. Ciò vale soprattutto per il grande pubblico ma in parte vale anche per gli studiosi.

Ben venga dunque questo libro scritto dalla sua valente segretaria Rosanna Marvulli, che ne delinea in modo documentato la vicenda umana e culturale, fornendo preziose informazioni su eventi di cui è stata testimone diretta e che, in certi casi, solo lei poteva conoscere a fondo (si vedano ad esempio le pagine in cui racconta come avvenne la stesura del Dizionario di filosofia, che Norberto Bobbio ha definito «la fatica più improba della sua vita»)2.

Da parte mia, in questo intervento, più che sull'uomo Abbagnano – di cui, subito dopo la morte, nel corso di una intervista, ho dichiarato: «Era un uomo che sapeva coniugare intelligenza, bontà e nobiltà d'animo. Anche nei momenti di maggior potere accademico e intellettuale era lungi dall'essere un "tiranno della cultura". Detestava la prevaricazione e la polemica. Insegnava la tolleranza e il rispetto delle idee»3 – desidero soffermarmi sul filosofo Abbagnano, in particolare su certe tematiche, in parte inedite, dell'ultimo, anzi "ultimissimo" Abbagnano.

Un giorno domandai al maestro torinese se fosse d'accordo con quella diffusa interpretazione del suo pensiero secondo la quale egli, dopo essere stato uno dei maggiori rappresentanti italiani (ed europei) dell'esistenzialismo, avrebbe finito per ridurre la filosofia a semplice «metodologia» del sapere positivo e delle sue tecniche. La sua risposta fu immediata e inequivocabile. Dopo aver sottolineato il carattere riduttivo di tale prospettiva, precisò: «Per me la filosofia è piuttosto metodologia dell'esistenza, cioè riflessione globale sulla vita umana e sui modi o le tecniche atte ad orientarla»4.

Tale significativa espressione, spontaneamente fiorita nel corso di un colloquio, non faceva che ribadire una delle convinzioni più radicate del suo pensiero: quella di uno stretto legame fra esistenza e filosofia, ossia «la necessità per l'uomo, per ciò che egli è, per ciò che deve essere, del filosofare»5. Necessità che dal punto di vista di Abbagnano rendeva la filosofia dell'esistenza una caratteristica permanente del nostro essere nel mondo. «Finché ci saranno gli individui singoli e associati con i loro interrogativi e problemi», mi disse a Santa Margherita Ligure agli inizi degli anni Settanta, «ci sarà anche la filosofia esistenziale: se c'è l'uomo, c'è l'esistenzialismo».

Nel dopoguerra (parallelamente all'incontro con il pensiero di Dewey) la convinzione secondo cui l'uomo non possa fare a meno di vivere e pensare senza con ciò stesso filosofare si è accompagnata alla tesi della filosofia come "attività direttiva" e strumento di modifica del mondo naturale e umano.

Coerentemente con la proclamata idea della filosofia come «uso del sapere a vantaggio dell'uomo»6 – concezione che coniuga l'istanza esistenzialistica con quella neoilluministica – l'ultimo Abbagnano è andato sviluppando un tipo di "filosofia applicata", come l'ha definita lo studioso ungherese Szabò Tibor, che si misura con i problemi della vita quotidiana (l'amore, il matrimonio, l'educazione dei figli ecc) e che si rivolge, tramite i giornali, a un pubblico più vasto di quello rappresentato dagli specialisti.

Come ha scritto Franco Volpi prendendo le distanze da quegli accademici che svalutavano la sua pionieristica attività di pubblicista-filosofo7 e discorrevano di "moralismo spicciolo" e di "filosofia popolare", in Abbagnano c' è un manifesto tentativo di «stanare la filosofia dal rifugio eburneo di un autocompiaciuto ed autoreferenziale esercizio, dai tecnicismi del linguaggio disciplinare in cui volentieri si perde. La richiama perciò a essere quello che anticamente era: non soltanto sapere teoretico puro, ma anche esercizio concreto di saggezza, arte di ben condurre la propria vita, saggezza pratica, dunque sapere consiliatorio e parenetico che insegna ad affrontare scelte e problemi cui la vita ci pone di fronte»8.

E ciò alla luce della convinzione, assai radicata nel pensiero di Abbagnano, secondo cui «la sorte peggiore, per una filosofia, è quella di essere simile a un tesoro sepolto in forzieri, che si può contemplare di tanto in tanto, ma non spendere, quando occorre, per i bisogni vitali»9.

Questa pratica della filosofia come "guida alle scelte" e "scuola di saggezza" – in cui Vattimo ha giustamente scorto «l'esito logico e coerente» di tutta l'opera di Abbagnano al punto di chiedersi se «egli non sia rimasto sempre fondamentalmente un esistenzialista, per quanto "positivo"»10 – nel corso del tempo si è accompagnata ad un sempre più vivo interesse per il discorso etico.

Tant'è che l'ultimo Abbagnano (come è noto a coloro che hanno avuto il modo e il privilegio di frequentarlo sino alla fine) pensava di scrivere un libro sulla morale, concepita non come un sistema di regole già scritte nell'essere – o nell'ordine metafisico delle cose – bensì come una costruzione umana assimilabile a una tecnica del vivere e del convivere volta a introdurre ordine nella vita individuale e collettiva e a fare in modo che gli uomini, anziché distruggersi a vicenda, cooperino civilmente fra di loro. Posto che per «tecnica», come recita il Dizionario di filosofia, si intenda «ogni insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un'attività qualsiasi»11.

Infatti, reagendo a ogni tentativo di "emanciparsi" dalla morale e dalle sue regole, Abbagnano osservava che si può essere conservatori o rivoluzionari, ma in ogni caso non si può fare a meno di seguire specifici modelli di comportamento, che orientano le nostre scelte Tant' è che egli era fermamente persuaso che «il gioco della morale non si può non giocare» perché «dovunque ci muoviamo, ci incontriamo con altri uomini» e quindi abbiamo bisogno di determinate regole di comportamento12.

Più in generale, era convinto che la pretesa di liberarsi dalle regole fosse solo una pericolosa illusione: «Ogni attività umana, in qualsiasi campo, ha le sue regole. Hanno regole la caccia e la pesca, che sono il primo lavoro dell'uomo. Hanno regole il gioco, lo sport, il culto religioso e la stessa attività artistica, che, se ha successo, inventa e conserva una sua tecnica, cio è un appropriato insieme di regole. Senza regole i rapporti umani più semplici non potrebbero instaurarsi né mantenersi. Basta entrare in un'osteria per bere un bicchiere o giocare una partita a carte per imbattersi in un mucchio di regole»13. Tant'è che ogni tentativo di instaurare forme nuove di coesistenza non comporta l'abolizione delle regole tout court, ma l'accoglienza di altre regole.

All'interno di questo programma di riabilitazione della morale e delle regole in Abbagnano troviamo anche un altro motivo di riflessione. Si tratta del tema, meno noto, ma certamente non meno importante e "attuale", che potremmo raccogliere sotto la rubrica «il compito del filosofo nell'età dell'incontro-scontro fra le culture e l'idea-programma di una morale planetaria». Tema che sin dagli anni Sessanta – e quindi prima che in ambito filosofico (Apel) e teologico (Küng) si diffondesse l'idea di un'etica mondiale – fa saltuariamente capolino negli scritti di Abbagnano e su cui lo scrivente, alla fine degli anni Ottanta, ha avuto modo di interloquire con il maestro nel corso di talune conversazioni private.

Conversazioni (inedite) delle quali, grazie alle sollecitazioni di Paolo Flores d'Arcais, ho parlato per la prima volta parecchi anni fa in un articolo apparso su «MicroMega»14 e di cui – in memoria di Abbagnano – ritengo utile, in questa occasione, riprendere i passaggi essenziali, con talune importanti aggiunte e precisazioni.

Premesso che la filosofia « è certo qualcosa di "eterno" perché risponde al bisogno dell'uomo di conoscere se stesso e il mondo in cui vive», ma i modi in cui essa si concretizza sono «condizionati dalle forme peculiari in cui la civiltà si realizza»15 – Abbagnano afferma che oggigiorno, in seguito alle profonde trasformazioni tecnologiche, sociali e culturali del nostro mondo «il primo compito del filosofo» è quello di rendersi conto delle trasformazioni storiche in atto e di prendere coscienza delle incombenze che tali mutamenti pongono alla ricerca filosofica16. A suo giudizio, il più evidente cambiamento che il mondo attuale va subendo sotto i nostri occhi consiste:

  1. nella crescente interdipendenza che si va realizzando fra tutti i popoli della terra;
  2. nel concomitante incontro-scontro fra le culture.

A proposito del primo punto, il filosofo scrive: «gli stessi mezzi tecnici che consentono agli uomini di andare passeggiando negli spazi interplanetari, rendono illusoria ogni loro pretesa di chiudersi nel guscio del loro territorio o della loro cultura. Non c'è oggi popolo o nazione, piccola o grande, che possa isolarsi dal resto del mondo. Ciò che accade nel più piccolo e insignificante Stato africano può avere ripercussioni decisive sulla vita, la prosperità e la pace di tutte le altre nazioni del globo. La civiltà e la ricchezza di certi popoli, che hanno raggiunto una condizione privilegiata, possono essere minacciate dalla fame e dalla violenza di popoli lontani e apparentemente estranei»17.

A proposito del secondo punto, Abbagnano era convinto, come mi disse nel corso di un colloquio torinese, che «un giorno il mondo sarà una grande New York» ossia un «crocevia di razze, lingue e religioni», con gli inevitabili «problemi di coesistenza fra culture diverse»18.

A suo giudizio, questa situazione pone, al filosofo, talune "sfide" di fondo. In primo luogo, lo obbliga non solo a liberarsi da ogni residua e antidemocratica divisione tra filosofi e non filosofi, ma anche a «svincolarsi dalle tradizioni culturali specifiche», allo scopo di rivolgersi efficacemente «a qualsiasi uomo, a qualsiasi tipo di cultura appartenga»19. In secondo luogo, lo sollecita a elaborare strumenti atti a fronteggiare i problemi derivanti dagli inevitabili urti di civiltà e di visioni del mondo.

Questo significa, secondo Abbagnano, che non basta prendere atto della pluralità dei punti di vista, ma occorre anche cercare possibili punti di incontro fra essi. Da ciò il suo rifiuto del relativismo etico e culturale, prospettato come la tesi secondo cui non esiste una morale valida ovunque, ma tante morali relative e diverse, ognuna delle quali fa parte integrante di una cultura (o civiltà) e sta e cade con essa.

Nella fattispecie, pur sottolineando la funzione metodologica del relativismo, consistente nel fatto che per comprendere e descrivere in modo adeguato i comportamenti dei membri di una cultura determinata occorre partire dalle forme di vita che questa cultura riconosce come proprie20, Abbagnano ne rifiutava però le generalizzazioni teoriche, scorgendo in esso una forma di assolutismo alla rovescia dalle conseguenze inaccettabili.

Anzi, come mi disse in uno dei nostri colloqui, il relativismo culturale non è solo da considerarsi «teoreticamente inconsistente», ma anche «praticamente pericoloso». Infatti, pur avendo svolto a suo tempo un ruolo "progressista", ossia una funzione correttiva rispetto a ogni forma di intolleranza e di "cannibalismo culturale" (in difesa di quel fondamentale principio antropologico che è il rispetto di tutte le culture), esso ha finito per rivelarsi una dottrina «accomodante» e, al limite, «conservatrice».

In primo luogo, perché esso si limita a prendere atto dei contrasti culturali, senza porsi il problema di un eventuale modo per dirimerli o attenuarli. In secondo luogo, perché, nel suo giustificazionismo esasperato, rischia di legittimare i valori di tutte le tradizioni, comprese quelle fondate su istituzioni e comportamenti aberranti (come la schiavitù delle donne o l'intolleranza religiosa). In terzo luogo, perché se da un lato sembra appellarsi a taluni valori umani di base (come la tolleranza nei confronti della diversità) dall'altro, proclamando la relatività dei medesimi, finisce per minarne la portata universalmente umana. A questo riguardo, Abbagnano mi disse di essere d'accordo con Putnam che in Ragione, verità e storia (1981), contro gli antropologi che sostengono la relatività del bene e del male per motivi "politici", ossia per impedire all'etnocentrismo imperialista dell'Occidente di sopraffare i valori delle altre culture, obietta: «Se i valori fossero veramente arbitrari, perché mai non potremmo distruggere qualunque cultura ci pare?»21.

Questo persistente rifiuto del relativismo costituisce uno dei motivi di fondo della predilezione di Abbagnano per Platone.

Nella fattispecie, egli riconosceva ai sofisti il merito di aver insistito sulla diversità delle credenze e dei costumi, ma il limite di essersi fermati a questa constatazione: «Come spesso fanno le avanguardie, i sofisti in fondo lasciavano le cose come le trovavano. Certo, essi gettarono una luce violenta sui contrasti tra le opinioni umane, sulle contraddizioni del pensiero filosofico, sulla diversità delle leggi e dei costumi, ma meno luce gettarono sulle possibilità di cui l'uomo dispone per superare la diversità delle opinioni, eliminare le contraddizioni e far coesistere pacificamente leggi e opinioni disparate, cio è popoli diversi per tradizione e costume»22.

Al contrario, con la dottrina delle idee, la quale postula l'esistenza di taluni criteri universali di giudizio, Platone si sarebbe sforzato di offrire agli uomini uno strumento idoneo a farli uscire dal caos delle loro contrastanti opinioni: «Quando Platone, nella grande utopia della Repubblica, cercò di determinare quella forma di giustizia che è utile a tutta la società umana, fece indubbiamente un passo al di là dei sofisti»23. Certo, ammette Abbagnano, pochi di noi approverebbero le specifiche forme di convivenza immaginate dal filosofo e ancor meno si sentirebbero felici in una repubblica come la sua: «Ma anche oggi, come ai tempi di Platone, il rendersi conto che gli uomini sono diversi e hanno opinioni cangianti, che ogni popolo e attaccato alla propria tradizione e ignora o disprezza quella degli altri, è soltanto il passo preliminare per la ricerca positiva di una conciliazione, di un compromesso, di un dialogo tra uomini e tra popoli fondato su criteri o regole da tutti accettabili»24.

Come per il filosofo greco, anche per il neoilluminista Abbagnano, l'unica via per uscire dai conflitti interpersonali e per instaurare «un civile dialogo fra gli uomini» risiedeva nella ricerca di una forma di convivenza basata su taluni criteri direttivi comuni.

Sulla base dei colloqui avuti, posso testimoniare che al filosofo salernitano stava a cuore l'idea di una tecnica della coesistenza di portata universale. Soprattutto negli ultimissimi anni, egli era sempre più interessato al possibile avvento di una morale planetaria basata su una serie di regole in grado di essere accolte da tutti i popoli della terra. Regole destinate a fungere da norma di ogni rapporto interumano e interculturale (e quindi da base di ogni agire politico ed economico eticamente fondato).

Lungi dall'essere monopolio di qualche religione o filosofia determinata, tale morale – da edificarsi con sforzo e pazienza, tramite la via del dialogo razionale e del consenso democratico – avrebbe dovuto essere sganciata da ogni particolare visione metafisico-religiosa del mondo e da ogni specifico contesto geografico-culturale e perciò in grado di esprimersi secondo un linguaggio veramente «universale».

Inoltre, per essere all'altezza dei propri compiti, essa avrebbe dovuto conformarsi al carattere di autocorreggibilità proprio di ogni tecnica razionale e quindi, lungi dal porsi come un codice perfetto e definitivo di prescrizioni immutabili, avrebbe dovuto avere le caratteristiche di un sistema imperfetto di regole comportamentali soggette a possibili correzioni e rettifiche.

Contestualmente, Abbagnano insisteva sulla curvatura funzionalista, anziché fondazionalista, di questa auspicata etica condivisa, la quale riprendeva una prerogativa di fondo che egli, già nel passato, aveva attribuito al discorso etico. Ad esempio, in un articolo del 1966, accennando a quel passo platonico in cui si dice che neppure una banda di briganti, o di ladri, potrebbe mettersi insieme e portare a termine una malefatta qualsiasi, se non rispettasse, al suo interno, le regole della giustizia, egli osservava: «Non si potrebbe esprimere meglio il carattere funzionale delle regole che costituiscono la giustizia o, in generale, la vita morale. Queste regole tendono a far sì che gli uomini, invece di ammazzarsi e nuocersi a vicenda, possano vivere insieme»25.

Del resto, aggiungeva Abbagnano: «Si può discutere all'infinito sul fondamento trascendente o immanente delle regole morali, sulle vie in cui sono manifestate o rivelate all'uomo, sulla loro assolutezza o relatività e via dicendo. Ma sul fatto fondamentale della funzione che esse assolvono o debbono assolvere nella vita associata, cio è di rendere possibile questa vita e di non votarla alla distruzione (che sarebbe distruzione degli stessi individui che la compongono), si trovano d'accordo i più disparati sistemi di etica»26. Infine, rivolgendosi all'attualità, egli scriveva:«se si considera la varietà e la disparità delle credenze, dei costumi, delle istituzioni dei popoli che ormai vivono a contatto di gomito in un mondo divenuto troppo stretto, e tra i quali c'è una ferrea solidarietà di fatto che ha preceduto di gran lunga la buona volontà della comprensione reciproca, si vede subito come la considerazione funzionalistica della morale, indipendente com' è per sua natura, dai conflitti ideologici, è la sola capace di preparare la condizione per una effettiva coesistenza pacifica»27.

Del resto, osservava il filosofo, la scienza «ha potuto creare i potenti strumenti tecnologici di cui oggi dispone solo prescindendo da ogni pregiudiziale metafisica, religiosa e ideologica e rimanendo impegnata soltanto alle regole (sempre aperte alla correzione) del proprio metodo»28

Questo non comporta, per inciso, che Abbagnano intendesse escludere ogni "fondazione" della morale o vietare ogni sua legittimazione in termini metafisici o teologici. Piuttosto, egli sottolineava il carattere opzionale o aggiuntivo di tali operazioni. Ad esempio, parlando della "umanità" della morale e accennando alla tradizionale fondazione cosmologica e ontologica dell'etica, in uno dei suoi ultimi scritti editi Abbagnano scriveva: «Non si vuol qui opporre un rifiuto categorico ad ogni integrazione cosmologica o teologica della morale. Tale integrazione diventa possibile o opzionale quando la morale stessa è stata chiarita nella sua stretta connessione con l'uomo […] L'uomo deve riconoscere se stesso nella morale prima di riconoscere in essa l'azione o il comando di un principio trascendente»29.

Tornando alla ipotizzata morale delle regole "comuni", che costituiva oggetto delle nostre ultime conversazioni, ben consapevole che una cultura come la nostra non crede facilmente all'esistenza di norme etiche universali, chiesi ad Abbagnano, proprio pochi mesi prima della sua scomparsa – quando egli aveva cominciato a riflettere in modo più organico e circostanziato su questo insieme di tematiche, rimaste sino ad allora allo stato embrionale – se potessero davvero esistere norme in grado di essere accolte da tutti i popoli e quindi di entrare a far parte, in un prossimo futuro, di una sorta di carta etica mondiale.

Abbagnano, per nulla imbarazzato, rispose che alcune di queste norme, contrariamente a quanto ritengono i fautori del relativismo etico e culturale, esistevano già e costituivano la spina dorsale di ogni rapporto umano meritevole di questo nome. Come ad esempio le massime della reciprocità (che nella sua formulazione più più semplice e antica prescrive di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi stessi)30 e del rispetto della dignità umana, di cui fa parte integrante il rispetto della libertà in tutte le sue forme e l'impegno a trattare l'uomo come soggetto e non come oggetto (in termini kantiani: «sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»)31.

Massime intorno a cui ruotano non solo i precetti di base propugnati dalle varie tradizioni religiose e morali del mondo («non uccidere», «non rubare», «non mentire» ecc.) ma anche i cosiddetti diritti dell'uomo.

Precetti e diritti che, pur non avendo una universalità fattuale (in quanto non tutti li accolgono e osservano) possiedono una universalità normativa (consistente nel fatto che, razionalmente parlando, tutti dovrebbero accoglierli ed osservarli). Universalità, quest'ultima, capace di unire in un comune consenso credenti e non credenti (intendendo per "credenti" i seguaci delle varie religioni del mondo e per "non credenti" i deisti, gli agnostici e gli atei).

Il fatto che non esista un'etica mondiale già costituita (ma solo da costituirsi) e che per l'uomo si prospetti l'incombenza , per usare le parole adoperate dal filosofo qualche anno prima, di «creare una morale veramente universale svincolandosi da ogni presupposto e rimanendo impegnato soltanto alle esigenze di una vita ordinata e pacifica»32 non implica che Abbagnano pensasse a una morale totalmente diversa da quella che già conosciamo, ossia a una morale priva di legami con il passato e con la tradizione.

Infatti, sia in pubblico, sia in privato, il filosofo salernitano non ha mai smesso di richiamare l'attenzione sulla vitalità (e utilizzabilità) delle regole comportamentali codificate nelle varie religioni e morali della storia: «Esistono certe regole generali e fondamentali che l'uomo farebbe bene a mantenere vive e operanti se non vuole andare incontro alla propria distruzione. Riconoscere queste regole nella paccottiglia delle prescrizioni o delle proibizioni tradizionali è oggi il compito fondamentale dell'etica come scienza della morale»33.

Tant'è che, in un articolo del 1977, rifuso nei Ricordi di un filosofo con il titolo «Lettera per il futuro», Abbagnano scriveva: «Non c'è bisogno di un'altra morale, cio è di nuove regole per salvare dalla rovina le generazioni di un avvenire distante. […] Bastano quelle che servono a dare ordine e misura alle generazioni attuali»34. Questo significa che, dal suo punto di vista una nuova tecnica planetaria del vivere e del convivere consona ai mutati assetti storico-mondiali non sarebbe scaturita dal nulla.

Infatti, coerentemente con la teoria della storicità dell'esistenza a cui egli è sempre rimasto fedele, ossia con la dottrina secondo la quale l'uomo deve fare, del proprio (autentico) passato, il proprio (autentico) avvenire, Abbagnano reputava che non si possa prescindere dall'esperienza morale accumulata dagli uomini nel corso dei secoli. Tuttavia, come si è visto, pur ispirandosi ai vari codici morali già esistenti, la nuova ars vivendi planetaria, andando al di là della «paccottiglia» delle prescrizioni tradizionali – e delle etiche massimaliste che ne stanno a monte – avrebbe dovuto enuclearne le (irrinunciabili) norme di base, sforzandosi di tradurle in un linguaggio sufficientemente generalizzato e universalmente condivisibile.

In secondo luogo, alla domanda se l'adozione di una prospettiva globale e l'insistenza su ciò che accomuna i popoli – più che su ciò che li differenzia – non rischiasse di farsi promotrice di una inaccettabile uniformità di modi di vivere e di atteggiarsi di fronte al mondo, o, al limite di convalidare un modello di sviluppo dominato da un solo tipo di civiltà (quella attualmente più forte) Abbagnano, conscio della pluralità non monoliticamente unificabile delle culture, rispose che l'adozione di una corretta prospettiva planetaria e il tentativo di trovare dei punti di incontro fra credenze diverse non implicavano (= non dovevano implicare) una sorta di imperialistica reductio ad unum della molteplicità, bensì lo sforzo di far coesistere, nell'unità, la diversità.

In altri termini, ribadendo un punto di vista che aveva già espresso qualche decennio prima discorrendo di Lévi-Strauss, affermò che la nozione di “cultura mondiale” (nel nostro caso: di "ethos mondiale") rappresenta un concetto-limite, cioè una norma cui ispirarsi per attuare, nel rispetto e nella tolleranza reciproca, l'incontro e la collaborazione tra le varie culture. Incontro volto a capitalizzare le possibilità che ogni cultura ha sviluppato e quindi, pur nell'accettazione di talune regole comuni, rispettoso di quella riconosciuta pluralità dei modi di vivere e di pensare che costituisce la base (e la forza) della democrazia.

In terzo luogo, alla domanda se se una tecnica della coesistenza di portata planetaria («liberamente accettata e liberamente modificabile da parte di coloro che l'accettano») fosse davvero realizzabile, Abbagnano rispose che il problema non era quello di credere o meno nella sua attuabilità, ma quello di impegnarsi per la sua realizzazione. «O le nazioni e le culture riusciranno a mettersi d'accordo su taluni punti comuni», mi disse a Milano nella primavera del 1990, «o finiranno per scannarsi a vicenda in conflitti interminabili».

Certo, Abbagnano sapeva benissimo che ipotizzare una tecnica della coesistenza di portata planetaria e, nella fattispecie, un'etica razionale basata su un consenso mondiale circa talune regole comuni poteva essere recepita come una astrazione di stampo illuministico o kantiano.

Tuttavia egli era nel contempo persuaso che la ricerca di un minimum etico universalmente condiviso, ossia di una sorta di esperanto morale, non rappresentasse affatto qualcosa di necessariamente irrealizzabile. Proprio come non era riducibile a semplice "utopia" la rivendicazione dei diritti umani e il consenso trasversale su di essi.

Nella fattispecie, egli riteneva che l'idea di una morale planetaria basata su una piattaforma minimale di regole suscettibili di essere condivise da tutti gli interlocutori del globo fosse una fra più alte che si possano concepire e, in ogni caso, fra le più meritevoli di essere perseguite.

È noto come dopo la morte del filosofo un'idea analoga, mutatis mutandis e all'interno di un differente contesto teorico, sia stata difesa da coloro – Küng35 in primis – che sostenendo il bisogno odierno di «un'etica universale a servizio della società mondiale»36, si sono fatti promotori di un Project Weltethos.

Come è avvenuto nel Parlamento delle religioni universali di Chicago del 1993, in cui oltre duecento rappresentanti di tutte le religioni del mondo hanno dichiarato per la prima volta nella storia il loro consenso su alcuni valori e comportamenti comuni atti a fungere da base di un'etica mondiale. Evento a cui è seguita un'importante Dichiarazione (punto di partenza per altre successive dichiarazioni) in cui si parla di principi che «possono essere condivisi (can be affirmed) da tutti gli uomini che hanno convinzioni etiche, motivate religiosamente o meno (religiously grounded or not37.

E ciò alla luce del convincimento, enunciato nella Premessa, che «Nessuno oggi potrebbe ancora contestare seriamente il fatto che un'epoca del mondo, caratterizzata rispetto a ogni altra epoca precedente da una politica, da una tecnologia, da un'economia e da una civiltà di dimensioni mondiali, abbia bisogno di un'etica mondiale»38.

Tornando ad Abbagnano, il fatto che egli credesse in una sorta grammatica morale comune in grado di garantire uno spazio di incontro fra popoli e culture diverse e che giudicasse tale idea fornita di concrete possibilità di realizzazione, non significa che, dal suo punto di vista, essa dovesse essere ritenuta qualcosa di sicuro e di garantito. Infatti, in coerente sintonia con la sua "filosofia della possibilità", lo studioso, anche in questi colloqui, non si stancava di ripetere (e ripetermi) che in questo campo: «l'unica realtà sicura è l'insicurezza dell'esistenza e l'urgenza di una razionalizzazione dei rapporti umani».

Come si può notare, anche in questo caso l'anziano maestro continuava a parlare come un filosofo che, pur essendo conscio della problematicità dell'esistenza e dei limiti della ragione, ha continuato a scommettere sulla razionalità umana. Come testimonia quella sorta di testamento filosofico, intitolato Fede nella ragione, che è il capitolo XXII dei Ricordi di un filosofo: «Certo, l'esercizio della razionalità è difficile e ricco di responsabilità e di rischi perché rifiuta ogni pretesa di infallibilità. E nulla garantisce che la razionalità vinca sempre o che ciò che vince sia per se stesso razionale. Ma, alla lunga, la razionalità sola, nel suo esercizio libero ed efficace, può rendere possibile una sopravvivenza degna del genere umano»39.

Il fatto che Abbagnano non abbia sviluppato – o non abbia avuto tempo di sviluppare – in modo organico il suo discorso su tale ipotizzata morale comune, ma abbia avvertito l'esigenza di una sua messa a fuoco è qualcosa di molto significativo, che se da un lato attesta la sua attenzione nei confronti dei problemi del mondo contemporaneo dall'altro conferma la componente neoilluministica del suo pensiero.

Un neoilluminismo, si badi bene, che non esclude la congenita curvatura esistenzialistica del suo filosofare. Infatti, è vero che Abbagnano è passato attraverso esperienze filosofiche diverse e che, a un certo punto, è approdato a una forma di neoilluminismo fecondata dall'incontro con il pragmatismo e il neoempirismo, ma questo non implica che da quel momento in poi egli abbia cessato di essere esistenzialista.

Tant'è che di fronte all'alternativa «morte o trasfigurazione dell'esistenzialismo»40, Abbagnano ha esplicitamente optato per la seconda possibilità, alludendo, con il termine trasfigurazione (alla lettera: mutamento di figura o aspetto) ad un cambiamento di forma e di temi – più che di sostanza – del proprio pensiero. Cambiamento che, contrariamente a quanto si è ritenuto talora, non coincide con un qualche (definitivo) abbandono della prospettiva esistenzialistica.

In realtà, come aveva già osservato quel fine studioso delle vicende dell'esistenzialismo italiano che è stato Antonio Santucci – rilevando come la sua indagine filosofica «non andasse disgiunta dalla preoccupazione esistenziale» – la tesi di un presunto congedo dal pensiero precedente «sembra francamente da respingere», in quanto Abbagnano «usciva da una fase dell'esistenzialismo […] ma certo non si distaccava dalla problematicità dell'uomo come soggetto della ricerca. Piuttosto egli si forzava di chiarire la situazione esistenziale nelle condizioni effettive che la costituiscono, di determinare quello che nelle prime sue opere ancora si designava come un rapporto all'essere»41.

Tant'è che nel filosofo salernitano la concezione esistenzialistica della problematicità e progettualità dell'esistenza e l'appello neoilluministico alla ragione e alle sue tecniche, hanno mostrato di saper coesistere in modo originale sino alla fine. E ciò nel quadro di una singolare forma (come la si potrebbe definire) di esistenzialismo neoilluminista o di neoilluminismo esistenzialista. Formula, a mio giudizio, che lungi dal costituire un ossimoro, coglie nel segno la complessità e peculiarità del pensiero di Abbagnano nell'ambito della cultura italiana ed europea del Novecento.

Un neo-illuminismo, bisogna aggiungere, programmaticamente alieno da ogni forma di assolutizzazione della ragione. Tant'è che già nel 1948 egli si faceva banditore di un tipo di illuminismo «che, smessa l'illusione ottimistica dell'illuminismo settecentesco e il pesante fardello del razionalismo ottocentesco, veda nella ragione ciò che essa è, una forza umana diretta a rendere più umano il mondo»42.

Ovviamente, non stupisce che un neoilluminismo di questo tipo abbia potuto coniugarsi con quel riconoscimento dei limiti dell'umano che è parte integrante della prospettiva esistenzialistica di Abbagnano.

«Vedo nell'uomo la finitudine – scriveva il filosofo nel corso di uno storico dibattito sull'esistenzialismo – e nell'accettazione della finitudine l'unica vera scelta»43. Finitudine che non riveste significati scettici o negativi perché in Abbagnano il limite, inteso non solo come ciò che circoscrive, ma anche come ciò che fonda, non è pessimisticamente constatato, ma criticamente accolto e posto alla base ogni possibile valore dell'esistenza.

Da ciò la persistente idea della filosofia come «ermeneutica della finitudine» (espressione che lo studioso, in un corso universitario degli anni Quaranta, usa in riferimento a Kant)44 e la polemica incessante contro tutte quelle filosofie di matrice 'romantica' (come l'idealismo) che hanno infinitizzato o divinizzato l'uomo o che hanno fatto della scienza, della tecnica, del progresso, della società perfetta, ecc. altrettanti surrogati dell'infinito (o del divino).

Negli ultimi anni questo lucido senso del limite si è accompagnato, come in Norberto Bobbio, ad un altrettanto lucido senso della inconoscibilità o misteriosità ultima delle cose. Misteriosità che, lungi dal poter essere risolta in un'equazione di ragione (secondo l'arrogante pretesa dei moderni) o di poter essere estromessa dall'umano (secondo l'acritica pretesa di certa cultura novecentesca) costituisce un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale.

Ed è proprio questo laico senso del nostro limite esistenziale e conoscitivo con la conseguente rinuncia a ogni (illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'uomo, a fondare – secondo l'ultimo Abbagnano – la possibilità di un incontro, pur nelle reciproche differenze, fra credenti e non credenti45.

E ciò all'insegna di quella «umiltà del pensiero» (come la chiamava il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto.

Note

1 Cfr., in proposito, le inchieste apparse su «Il Sole 24 ore» del 2 marzo 2014 e su «la Repubblica» del 7 settembre del 2016.

2 N.Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, Salerno 4 dicembre 1965, in N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino 1967, pp. 12-38. La citazione è a p. 34.

3 M. Anselmo, Filosofo della "terza via". Contro le tirannie della cultura, «La Stampa», 10 settembre 1990.

4 Ho riportato per la prima volta questa espressione di Abbagnano in G. Fornero, Sull'attualità del pensiero di Nicola Abbagnano, «Informazione filosofica», 31, VII, marzo 1997, pp. 14-15.

5 N. Abbagnano, La filosofia come esistenza (1940), poi in Id., Introduzione all'esistenzialismo (1942). Ora in Id., Scritti esistenzialisti, a cura di Bruno Maiorca, Utet, Torino 1988, pp. 237-254. La citazione è a p. 237.

6 Id., voce "Filosofia" in Id., Dizionario di filosofia, 3° ed. aggiornata e ampliata da G. Fornero, Utet, Torino 1998, pp. 476-493.

7 Ricordiamo che Abbagnano fu uno dei primi e più autorevoli studiosi a parlare di filosofia sui quotidiani.

8 F. Volpi, Il filosofo ottimista, «la Repubblica», 14 luglio 2001.

9 N. Abbagnano, Fra il tutto e il nulla, Rizzoli, Milano 1973, p. 3.

10 G. Vattimo, Ci ha preparati alla modernità, «La Stampa», 30 settembre 2001.

11 N. Abbagnano, voce "Tecnica" in Id., Dizionario di filosofia, cit., pp. 1070-1073.

12 Id., Fra il tutto e il nulla, cit., p. 205.

13 Id., Questa pazza filosofia. Ovvero l'Io prigioniero, Editoriale Nuova, Milano 1979, p. 111.

14 G. Fornero, Abbagnano e la metodologia dell'esistenza, «MicroMega», n. 5, 2001, pp. 310-320.

15 N. Abbagnano, La risposta di Nicola Abbagnano, in Scritti scelti, Taylor, Torino 1967, pp. 45-56. La citazione è a p. 46.

16 Ivi, pp. 46-47.

17 Ivi, p. 47.

18 Cfr. l'intervista di M. Baudino, Abbagnano, la filosofia è un best-seller, «La Stampa» 30 settembre 2001.

19 N. Abbagnano, Scritti scelti, cit., p. 50.

20 Id., Problemi di sociologia, Taylor, Torino 1959, 19672, pp. 194-196.

21 H. Putnam, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1985, p. 132.

22 Id., Per o contro l'uomo, Rizzoli, Milano 1968, p. 378.

23 Ivi, p. 379.

24 Ibidem.

25 Id., Per o contro l'uomo, cit., p. 150.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 151.

28 Id., Fra il tutto e il nulla, cit., p. 214.

29 Id., Etica e morale, «Silarus», a. XXVII, n. 149-150/1990, pp. 5-6.

30 Come osserva Abbagnano nell'ultimo scritto citato (pp. 9-10), tale regola, nella sua formulazione negativa «è pressoché universale nelle maggiori religioni del mondo. Diceva Confucio: "Ciò che non vuoi sia fatto a te, non fare agli altri" (Dialoghi, 15, 402). E in forma analoga la regola si trova formulata in testi ebraici (Mishnah Shabbat, 31a) e nelle Upanishad (Dhammapada X, 130; Udana, V)». Nel cristianesimo, in cui la regola esprime l'obbligo del dare più che il diritto dell'avere e quindi non si presta a stabilire una rivalsa punitiva, essa viene invece espressa in forma positiva: "Tutto ciò che voi volete gli uomini facciano a voi, fatelo anche voi a loro" (Matteo 7,12; Luca 6,31; Didaché, I, 2).

31 Abbagnano soleva precisare che Kant non dice, tout court, di trattare l'uomo come fine e non come mezzo, ma pi&hgrave; sottilmente – ben sapendo che nella vita concreta non possiamo fare a meno di trattarci anche come mezzi – di trattare l'uomo sempre anche come fine e non semplicemente come mezzo.

32 Id., Fra il tutto e il nulla, cit., p. 215.

33 Id., Questa pazza filosofia, cit., p. 112.

34 Id., Ricordi di un filosofo, a cura di M. Staglieno, Rizzoli, Milano 1990, pp. 224-225.

35 H. Küng, Progetto per un'etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991.

36 Id., Verso un'etica delle religioni universali. Problemi fondamentali dell'etica contemporanea in un orizzonte globale, in «Concilium», 2(1990), pp. 126–144.

37 Per un'etica mondiale. La dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali, a cura di H. Küng - K.-J. Kuschel, Rizzoli, Milano 1995, p. 19.

38 Ivi, Premessa, p. 7.

39 Ivi, pp. 220-221.

40 Id., Morte o trasfigurazione dell'esistenzialismo (1955), poi in Id., Possibilità e libertà (1956). Ora in Id., Scritti esistenzialisti, cit., pp. 583-597.

41 A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Il Mulino, Bologna 1959, 19752, pp. 385 e 383.

42 N. Abbagnano, Verso un nuovo illuminismo: John Dewey, «Rivista di filosofia», XXXIX, 1948, pp. 313-325, ora in Id., Scritti neoilluministici (1948-1965), a cura di B. Maiorca, introduzione di P. Rossi e C. A. Viano, Utet, Torino 2001, pp. 99-111. La citazione è a p. 111.

43 Id., Repliche ai contradittori, «Primato», IV, 6, 15 marzo 1943, p. 203, poi in L'esistenzialismo in Italia, a cura di B. Maiorca, con una appendice su "Abbagnano e Gentile" di G. Fornero, Paravia, Torino 1993, pp. 141-147. La citazione è a p.146.

44 Id., Le origini storiche dell'esistenzialismo, dispense universitarie dell'anno 1943-44, Litografia Viretto, Torino 1944. Testo poco noto e ormai introvabile, parzialmente ripubblicato, con relativa introduzione, in «MicroMega», n. 5, 2001, pp. 283-300.

45 Cfr. G. Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire», 28 settembre 2010.