«La Stampa»
15 marzo 2003

Per la filosofia del '900 la bussola ermeneutica in un mare di correnti

di Franca D'Agostini

In un'opera di grande rigore e chiarezza espositiva Fornero e Tassinari si sono assunti l'immenso onere di esporre i lineamenti del pensiero novecentesco. E l'inizio è in qualche modo una sorpresa. Può stupire infatti che una storia della filosofia del Novecento incominci con Friedrich Nietzsche, sia pure inteso come una sorta di vestibolo e di spartiacque a cavallo dei secoli. Ma si tratta in realtà di un passo del tutto giustificato: la destinazione e l'efficacia del pensiero di Nietzsche appartengono quasi per intero al Novecento, secolo che egli ebbe appena il tempo di scorgere dalle tenebre della follia. Ma non si tratta solo di questo: l'andamento del pensiero di Nietzsche infatti consente fra l'altro di trovare per così dire un ancoraggio nel grande caos del secolo appena passato. Esso induce infatti ad accordarsi – non senza che ciò possa sollevare perplessità e obiezioni comunque feconde – circa la cifra comune del pensiero novecentesco, che potrebbe racchiudersi (anche se i due autori non lo dicono esplicitamente) nell'ermeneutica. Che cosa fa infatti il superuomo nietzschiano, se non vivere in modo ermeneutico, sostituendo al vincolo dell'oggettività (venuta meno dopo il nichilismo) la vertigine dell'interpretazione? Incominciare con Nietzsche significa dunque anche scegliere una chiave di lettura del Novecento che rechi al proprio centro il segno dell'interpretazione, senza con ciò nulla togliere all'autonomia delle singole prospettive che in questo secolo vengono successivamente a proporsi.

A questo proposito, non è difficile intendere che affiora nel lavoro di Fornero e Tassinari il debito nei confronti di un modello interpretativo derivato dalla Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, secondo il quale ogni autore detiene, nel quadro dello sviluppo del pensiero, una propria peculiare autonomia. Si tratta tuttavia di un modello che, nonostante il suo vasto e anche giustificato successo, suscita ora alcune perplessità: da questo punto di vista infatti non sembra risultare chiaramente se la storia della filosofia sia una storia liberale (e in questo senso una storia libera, in cui ogni individuo può esprimere al meglio il proprio sé pensante), oppure una storia dell'arbitrarietà, una vicenda nella quale ognuno dice ciò che vuole, in ultima analisi insomma una vicenda umana ed espressiva che – non si capisce bene come – ha tuttavia a che fare con un'altra vicenda: quella della verità. È questo il motivo, ritengo, per cui i due autori di Le filosofie del Novecento sono intervenuti assai opportunamente su questo schema storiografico.

A ragione, cioè, questo libro accantona lo schema rigidamente monografico nell'illustrare lo sviluppo del pensiero, optando per un quadro più complesso e ampiamente condivisibile, dove al semplice succedersi delle singole figure si sostituisce quello delle correnti filosofiche. Tale scelta si rivela da ultimo felice, poiché rende possibile compendiare, per così dire, necessità e libertà. Giacché, ovviamente, se gli individui si suppongono liberi, non si può invece dire la stessa cosa dei pensieri, i quali non saranno obbligati, ma certamente condizionati dalla rete concettuale comune che è sottintesa al loro sviluppo e al loro assetto.

È proprio dunque questo approccio, innanzitutto tematico e solo secondariamente monografico, a salvaguardare il rigore del pensiero filosofico senza pregiudicare l'autonomia delle diverse prospettive. Per riprendere una metafora del grande studioso tedesco Dieter Henrich, nel consultare questo ricchissimo volume viene allora in mente l'idea che sia necessario guardare alla storia del pensiero, più che come a uno sviluppo continuo secondo un modello diacronico, come a una costellazione derivante dall'esplosione d'una supernova. E proprio come una costellazione che si espande intorno ad alcuni punti di riferimento centrali è costruito infatti il libro. Alcune filosofie vi fanno, per così dire, da elementi strutturali. Oltre a Nietzsche, Heidegger (cui sono dedicati addirittura due diversi capitoli), costituisce per esempio un autore di significato assolutamente centrale. Ma un notevole peso storico viene attribuito anche al marxismo. Decisamente meritevole è poi il fatto che un ampio spazio venga attribuito al pensiero teologico, sia di area protestante sia di area cattolica – scelta lodevole, in particolare nell'ambito di una cultura come la nostra che ha per lo più teso a fare della riflessione teologica quasi un «affare privato» dei credenti, e non un patrimonio semantico e metaforico che appartiene alla cultura in generale indipendentemente dalle scelte religiose dei singoli.

Con ciò, si può aggiungere che anche il testo di Fornero e Tassinari, che sembrerebbe volersi tenere equidistante nei confronti delle scelte militanti prese in considerazione, in realtà e inevitabilmente è partecipe del travaglio concettuale che espone e illustra. Infatti per quanto il panorama offerto sia esaustivo e per quanto ampia sia la considerazione fornita per esempio alle scienze sociali e all'epistemologia, risulta piuttosto evidente almeno una (a mio avviso legittima) propensione per la tradizione continentale rispetto a quella analitica anglosassone.

Nella grande diatriba tra analitici e continentali che ha agitato il secolo XX, questo libro sembra cioè prendere infine posizione per il secondo dei due partiti, inducendoci a pensare che il primo tende a confluire nuovamente nel main stream della tradizione maggiore dopo essersene distaccato a partire dall'insegnamento di Ludwig Wittgenstein. Ciò però non fa che confermare un assunto che testimonia della vitalità della tradizione filosofica: i concetti della metafisica possono essere ancora messi utilmente a frutto anche nel confronto con contesti rinnovati. Lo attesta da ultimo anche il ricco capitolo dedicato a «Etica e bioetica», laddove s'affaccia energicamente, per esempio, il venerando rigore del pensiero aristotelico.