«Critica liberale»
25(2008), nn. 155-157

Laicità debole e forte

di Paolo Bonetti

Nel 2005 Giovanni Fornero, storico della filosofia e allievo di Nicola Abbagnano, ha pubblicato, presso l'editore Bruno Mondadori, un libro su Bioetica cattolica e bioetica laica, che ha suscitato un'interessante discussione non solo fra gli addetti ai lavori; recentemente, stimolato dalle critiche e dai consensi, Fornero ha allargato il campo delle sue riflessioni con un saggio in cui la bioetica diventa il punto di partenza per un discorso più generale sul controverso tema della "laicità". Il nuovo libro, che contiene anche i testi dei suoi critici, s'intitola Laicità forte e laicità debole. Il contributo della bioetica al dibattito sulla laicità ed è uscito presso lo stesso editore del precedente. L'autore distingue, dunque, una laicità debole, una laicità intesa come metodo da tutti partecipabile, da una laicità forte o laicità di principio, che può essere areligiosa o antireligiosa, ma prescinde comunque dalla presenza di Dio come creatore e ordinatore del mondo. I credenti possono certo essere laici in senso debole, ma soltanto ai non credenti può essere applicato i modello di laicità forte, soltanto essi possono davvero ragionare sulle questioni civili etsi deus non daretur, escludendo Dio dalla loro prospettiva etico-politica. Fornero aggiunge poi un terzo modello di laicità, che chiama, sulle tracce di Gianni Vattimo, laicità post-moderna; quest'ultima, «pur mettendo da parte l'ipotesi-Dio e l'ottica religiosa», non pretende che «tutti ragionino senza Dio o contro Dio». Qualcuno (Fabio Bacchini, ad esempio) ha contestato alla radice la distinzione fra laicità forte e debole, perché anche la laicità debole, per essere davvero tale e dar vita a uno Stato non confessionale, ha bisogno dell'etsi deus non daretur, del principio, insomma, che connota la laicità forte. Per Fornero, invece, l'etsi della laicità debole ha un significato puramente procedurale, mentre quello della laicità forte ha un significato ideologico-filosofico.

Poste queste premesse, appare però significativo che, a un certo punto della sua riflessione, lo stesso Fornero sia costretto a precisare che egli non intende ridurre la laicità debole a mero "proceduralismo", neutro e indifferente sul piano dei valori. E debba anche ammettere che la laicità-metodo implica necessariamente l'adesione teorico-pratica ad alcuni valori di fondo, quali la libertà e il pluralismo, che sono «i valori stessi della democrazia». La conclusione, alquanto contraddittoria, è che la laicità debole, pur essendo, per sua intrinseca costituzione, un semplice metodo, è «nel contempo. un valore, anzi il valore che funge da condizione necessaria». E questo valore «ha finito per configurarsi come il valore di base dell'Occidente e come il prerequisito di una (auspicabile) società planetaria organizzata su ua base democratica». Bene, si può essere d'accordo, ma, a questo punto, dove va a finire la laicità debole che, secondo lo stesso Fornero, non può superare la soglia del proceduralismo, perché altrimenti si convertirebbe in laicità forte e magari, Dio non voglia, nel tanto deprecato laicismo? E ancora, come si può essere davvero laici se non si condivide questo valore prioritario forte della libertà e del pluralismo, quello che Guido Calogero chiamava il "principio del dialogo", e che necessariamente fa aggio anche su ogni presunta volontà divina, comunque essa si manifesti alla mente di un credente? Si può essere, al tempo stesso, credenti in una qualche rivelazione divina e sinceramente laici sul piano dell'etica pubblica, purché, però, si riconosca (e qui sta la sostanza della questione) anche da parte del credente che la libertà della coscienza non può essere violata neppure in nome della legge divina: nessuna obbedienza alla volontà di Dio può giustificare la violenza fatta alla coscienza di un altro uomo, magari con l'alibi di doversi mantenere fedeli alla verità. Il diritto all’errore, la libertà di peccare, sono, in una società libera, più importanti dell'ossequio alla verità. E, d'altra parte, si può essere storicisti e relativisti in tutto, ma non su quel principio di rispetto delle reciproche libertà, forte e non relativo, che si configura come premessa universale e necessaria perché il relativismo (storicamente inevitabile, ma anche moralmente positivo) non finisca col distruggere sé stesso dando vita a nuovi dogmatismi.