«Rocca»
1 febbraio 2013 n. 3

Laici e cattolici stranieri morali?

di Pietro Greco

La bioetica come fenomeno mondiale, sostiene con un'acuta provocazione il cattolico Tristram H. Engelhardt junior, è nata alla fine dell'era cristiana. Ed è nata per due motivi. Per l'esplosione della tecnica. E per l'implosione dell'etica religiosa quale paradigma morale universale o, quanto meno, dominante. L'irruzione sulla scena di nuove tecnologie biomediche ha infatti determinato la necessità di assumere decisioni affatto nuove intorno alla vita, alla riproduzione e alla morte delle persone. E questo proprio mentre, almeno nell'Occidente cristiano, venivano meno le certezze in fatto di diritti e doveri dell'azione umana.

quando nasce la bioetica

Il bisogno di nuove regole e il venir meno di un punto di riferimento etico universale ha fatto nascere la bioetica. O meglio, le bioetiche.

Storicamente questa disciplina nasce al confine tra filosofia e biologia all'inizio degli anni '70. La data di nascita viene da alcuni individuata nel 1970, quando l'oncologo Van Rensselaer Potter propone il termine bioetica per indicare l'insieme delle conoscenze, delle tecniche e delle prospettive di miglioramento della condizione umana legate allo sviluppo delle scienze biomediche. Altri sostengono che la bioetica è nata in realtà nel gennaio del 1973, quando un gruppo di biologi si riunì a convegno ad Asilomar, in California, per discutere i rischi connessi all'uso delle nuove conoscenze di biologia molecolare e propose una moratoria delle ricerche. Alcuni storici sostengono che i temi di interesse bioetico sono nati prima che si parlasse esplicitamente di bioetica. E retrodatano la nascita di questa disciplina ora agli anni '40, quando in occasione del Processo di Norimberga si cominciò a discutere dei limiti etici in fatto di sperimentazione medica, ora agli anni '50 e agli anni '60, quando lo sviluppo impetuoso delle tecnologie biomediche obbligò a definire in termini sempre più precisi sui concetti di persona, di vita e di morte. Ma, al di là dei problemi di datazione dell'origine, resta il fatto che la bioetica si è sviluppata negli anni '70 come disciplina che studia le conseguenze etiche che produce la ricerca biomedica in relazione alla nascita, alla cura e alla morte soprattutto (ma non solo) degli esseri umani.

approcci diversi

Lo sviluppo di questa disciplina ha prodotto non una, ma svariate bioetiche. E, come sostiene Engelhardt, il nodo da sciogliere oggi non è quale bioetica la società debba darsi, ma come creare una società «multietica», in cui convivano diversi approcci bioetici.

Questi diversi approcci si articolano intorno a due grandi dimensioni. Una è quella relativa alla prassi bioetica (la bioetica è spesso definita etica applicata). Alcuni pensano che nella pratica il ruolo della bioetica debba essere quello (negativo) di mettere le briglie alla libertà di ricerca scientifica e di innovazione tecnologica che, lasciate a se stesse, possono rivelarsi causa di gravi danni, fisici e spirituali, per l'uomo. Altri pensano che nella pratica la bioetica debba assolvere a una funzione positiva, come disciplina che può aiutare la biologia e la medicina a incrementare la loro capacità di promuovere lo sviluppo, fisico e spirituale, dell'uomo.

La seconda dimensione riguarda i fondamenti della bioetica. Secondo un approccio che potremmo definire giusnaturalistico, esiste un ordine naturale creato da Dio e i princìpi della bioetica, assoluti e immutabili, sono inscritti in quest'ordine. In questo approccio è possibile riconoscere quello della «bioetica cattolica» (in questo articolo definita, per semplicità e speriamo non con eccessiva superficialità, come la bioetica proposta dal Magistero della Chiesa Cattolica). Secondo un approccio più laico, i princìpi della bioetica non sono affatto assoluti e immutabili, ma sono il prodotto della cultura umana. E, proprio come la cultura umana, hanno una dimensione intrinsecamente evolutiva.

Nel primo caso il compito dei bioetici è di «scoprire» i princìpi dell'ordine naturale, per preservarli. Nel secondo caso il compito dei bioetici è quello di contribuire a definire un insieme strutturalmente contingente di regole per il governo concreto e locale delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni tecnologiche. Ma questi due approcci alla bioetica sono conciliabili? Oppure laici e cattolici (o meglio, i seguaci dei due approcci) sono, come sostiene Engelhardt junior, degli «stranieri morali»?

A queste domande hanno proposto una argomentata risposta Maurizio Mori e Giovanni Fornero in un libro, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto da poco pubblicato con l'editore Le Lettere.

E la loro risposta è piuttosto secca: no. Non c'è possibilità di conciliazione. I due approcci sono irrimediabilmente diversi. Anche se, sottolinea Fornero, non sono esattamente «stranieri morali». I due studiosi sono entrambi laici, anche se il loro pensiero bioetico non è omologo. Ma su due punti concordano perfettamente: 1) esistono almeno due approcci distinti – uno laico e l'altro cattolico – a quell'«etica pratica» che è la bioetica; 2) i due approcci sono così irrimediabilmente diversi da non poter essere, in alcun modo, ricondotti a uno. Si tratta di due punti controversi, non tutti i loro colleghi sono d'accordo. Ma Mori e Fornero argomentano bene, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista filosofico, e offrono al lettore, sia esso cattolico o no, una chiave di interpretazione rigorosa e comprensibile di una partita che da molti anni si gioca, in Italia e nel mondo, in maniera spesso aspra e confusa.

Nella prima parte del libro Maurizio Mori ripercorre la storia di questo confronto insanabile. Mostrando come, dopo la seconda guerra mondiale, sia stata l'irruzione sulla scena delle nuove tecnologie biomediche (la pillola anticoncezionale, i trapianti di organi, la fecondazione in vitro) a costringere tutti a porsi domande fondamentali ed eticamente sensibili: cos'è e quando nasce la vita; cos'è e quando avviene la morte: cos'è la persona. Tra quei «tutti» ci sono i laici e i cattolici, i singoli stati e le Nazioni Unite. Maurizio Mori spiega – ma sarebbe meglio dire, dimostra – come proprio le Nazioni Unite abbiano svolto un ruolo decisivo nella nascita della bioetica e del confronto in bioetica. L'esigenza di rispondere a quelle domande fondamentali emerge, infatti, nel periodo della guerra fredda, quando il mondo era diviso in due blocchi divisi sul piano ideologico, ancor prima che militare, politico ed economico. E la novità biomedica non fa emergere solo nuove domande etiche ma anche due autorità che si ritengono portatrici di un'interpretazione etica che tende a proporsi come universale. Una laica, espressa appunto in sede di Nazioni Unite e che assume anche forma giuridica, per esempio con La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948). L'altra religiosa, che si è espressa soprattutto in Vaticano, che ha assunto a sua volta una forma giuridica (canonica) in svariati documenti che costituiscono parte importante del Magistero della Chiesa Cattolica.

il paradigma della convergenza a quello della divergenza

Per un certo tempo questa dicotomia ha cercato una composizione. E l'ha cercata in maniera così determinata sia sul piano teorico che su quello pratico da assumere le forme di un vero e proprio paradigma culturale: il «paradigma della convergenza». Ovvero l'idea che si potesse stabilire un'etica comune universale, valida per l'intera umanità: credenti e non credenti, laici, cattolici, protestanti, islamici, ebrei e così via. Questo paradigma trovò e per certi versi si incarnò anche in alcuni «uomini del dialogo»: come il presidente americano (e cattolico) John Kennedy, il segretario del Partito Comunista sovietico Nikita Krusciov autore del «disgelo» in Urss e papa Giovanni XXIII.

Il paradigma della convergenza, sostiene Maurizio Mori, ha dominato per alcuni decenni e ha avuto momenti di altissima intensità: come, a esempio, il Concilio Vaticano II. Poi, però, è crollato. Lasciando il terreno al «paradigma della divergenza». Il nuovo paradigma non è più fondato sull'universalità, bensì sull'identità. E si è incarnato in «uomini (e donne) dell'identità»: politici, come Margaret Thatcher o Ronald Reagan, e religiosi, come papa Giovanni Paolo II. È stato questo nuovo vento culturale, sostiene Mori, a spingere la Chiesa Cattolica a definire, in maniera sempre più formale, il proprio Magistero nelle questioni eticamente sensibili emerse con lo sviluppo della bio-medicina. E, dunque, a fornire proprie risposte precise alle domande: cos'è la vita, la morte, la persona. E nel rispondere a quelle domande a individuare una serie di «princìpi non negoziabili». È nata così la «bioetica cattolica»: intesa come bioetica ufficiale della Chiesa, fondata su una precisa e specifica «visione del mondo».

La nascita di una «bioetica cattolica» ha determinato, per naturale germinazione, la nascita di una «bioetica laica» che fa riferimento a un'altra «visione del mondo». La due visioni sono affatto diverse, persino inconciliabili. E, infatti, i motivi di scontro tra queste due visioni del mondo nel corso degli anni è venuta aumentando disegnando una storia pressoché lineare: la storia di un conflitto crescente: prima il divorzio, poi l'aborto, poi la procreazione assistita, poi il testamento biologico…

Ma se storicamente è andata così, doveva necessariamente andare così? In altri termini lo scontro è un conflitto artificioso e sanabile, oppure è reale e insanabile? A questa domanda risponde, nella seconda parte del libro, Giovanni Fornero. Sostenendo che il conflitto non è frutto di una contingenza storica ma è reale: per cui sbaglia chi nega che esista o tende a minimizzarlo. Il conflitto è reale e insanabile proprio perché si fonda su visioni del mondo affatto diverse. Una, quella cattolica, che fa riferimento al trascendente, alla «specialità» dell'uomo e all'esistenza di «princìpi assoluti» che derivano da Dio. L'altra, quella laica, che si riferisce solo alla natura, di cui l'uomo è parte non dotata di particolare specificità. Tuttavia Giovanni Fornero sottolinea che sarebbe del tutto sbagliato spiegare la differenza tra queste due bioetiche sulla base della dicotomia tra fede e ragione. Entrambe le bioetiche – sia quella cattolica sia quella laica – sono fondate sulla ragione. Anche se sono espressione di due diverse razionalità. O meglio, di due diversi sistemi logico-deduttivi.

domande e risposte asimmetriche

Fornero individua 12 idee-guida alla base dell'etica applicata cattolica e di 10 diverse e a tratti opposte, idee-guida dell'etica applicata laica, ma una comune epistemologia fondata sulla deduzione logica. In realtà, anche se entrambe aderiscono a una logica tendenzialmente di tipo deduttivo, a giudizio del vostro modesto cronista un'asimmetria fondamentale tra la «bioetica cattolica» e la «bioetica laica» esiste. La prima, quella cattolica, è di tipo assiomatico: ovvero, deduce le implicazioni logiche da idee-guida da princìpi non dimostrati (assiomi) perché fanno riferimento al trascendente e, dunque, per definizione non sono dimostrabili scientificamente. La seconda, la bioetica laica, fa riferimento alle conoscenze empiriche, oltre che teoriche, della scienza. Conoscenze che non sono mai assolute, ma sempre contingenti. Non sono assiomi, appunto, ma teorie e fatti sperimentali che sono, per definizione, da tutti dimostrabili. È proprio questa asimmetria ab initio che rende le due visioni del mondo strutturalmente diverse e che, di conseguenza, rende impossibile ogni tentativo di recuperare il paradigma della convergenza: a meno che una delle due non rinunci ai suoi princìpi fondanti (alle sue idee-guida). Così, anche se a tratti nobile, quella di molti concordisti risulta una «missione impossibile» sul piano filosofico. O, come dicono i logici, un problema insolubile.

Il guaio è che la bioetica non è solo filosofia. È etica applicata. E, dunque, ha forti implicazioni pratiche. Influenza o cerca di influenzare, per esempio, la composizione delle leggi dello Stato. Eccoci dunque al punto politico: cosa deve fare lo Stato se di fronte ha (almeno) due bioetiche diverse e irriducibili? La domanda è di stringente attualità. Anche per il governo prossimo venturo.

Il guaio è che le risposte a questa domanda sono, a loro volta, asimmetriche e inconciliabili. I fautori della bioetica laica sostengono che gli stati devono svolgere il ruolo, neutrale, di arbitro. Lasciando libertà a tutti di aderire alla propria «visione del mondo». I fautori della bioetica cattolica sostengono, al contrario, che alcuni dei loro princìpi – non a caso definiti «non negoziabili» – hanno valore universale. E dunque devono essere assunti in forma di legge dagli stati.

Come si esce, in Parlamento e nella società, da questo inviluppo? Secondo Fornero si tratta di una classico problema indecidibile. Non ammette una soluzione in punto di logica: il paradigma della convergenza è definitivamente crollato. Le due bioetiche non possono trovare una conciliazione pienamente soddisfacente. Di conseguenza non c'è altro da fare che cercare, pragmaticamente, di volta in volta un compromesso. Purché sia sempre cercato in maniera trasparente e non sia mai un compromesso al ribasso.