«Corriere della sera»
(«Corriere del Trentino» e «Corriere dell'Alto
Adige»)
3 ottobre 2013
Il dovere della chiarezza
di Annalia Dongilli
Un'intervista a Giovanni Fornero comparsa sul «Corriere della sera» sul dialogo fra papa Francesco ed Eugenio Scalfari
Ci sono tematiche che hanno alle spalle secoli di dibattiti filosofici e dottrinali. Fra queste c'è la dialettica fra laici e cattolici, che l'attenzione mostrata da papa Francesco nei confronti di chi non crede ha fatto ritornare prepotentemente attuale. In tanti si sono affrettati ad applaudire all'apertura coraggiosa del pontefice; non tutti però hanno riflettuto in modo epistemologico sui contenuti emersi dalle riflessioni del papa. Eppure questa è una condicio sine qua non perché il dialogo fra credenti e non credenti non si trasformi nell'ennesimo pseudo talk show, finalizzato a produrre, da una parte e dall'altra dei due schieramenti, vittorie effimere e strumentali. Ne abbiamo parlato con il filosofo Giovanni Fornero. Noto coautore della Storia della filosofia e del Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, che hanno formato generazioni di studenti liceali e universitari, Fornero è uno dei maggiori studiosi del rapporto laici-cattolici. Torinese, da sempre amante delle Dolomiti, da qualche tempo ha fatto di Bolzano e dell'Alto Adige la sua casa. Negli ultimi anni si è concentrato sulla bioetica, dando alle stampe testi fondamentali come Bioetica cattolica e bioetica laica (2005), Laicità debole e laicità forte (2008), Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto (2012) in collaborazione con Maurizio Mori.
Professore, cerchiamo di inquadrare il dibattito che sta animando i media in questi giorni. Tutti parlano del dialogo laici cattolici aperto da papa Francesco: perché il pontefice, secondo lei, si è rivolto ai laici? È vero, come sostiene qualcuno, che in questo modo si rispolvera lo spirito del Concilio Vaticano II sopito negli anni di Wojtyła e di Ratzinger?
«Papa Francesco è consapevole di vivere in una società pluralista e secolarizzata, dove la credenza in Dio – secondo la tesi del filosofo americano Charles Taylor – non è per niente "scontata", anzi è costretta a coesistere con ampie zone di non credenza. Da ciò l'esigenza di un confronto con le varie forme di agnosticismo e ateismo. Esigenza già presente nella storica apertura alla modernità e al dialogo attuata dal Concilio Vaticano II. In questo caso, c'è tuttavia un elemento di novità, costituito dal fatto che a dialogare direttamente con uno studioso laico è il pontefice stesso. Storicamente parlando, tale novità non può tuttavia essere considerata assoluta in quanto, un inizio di dialogo c'era già stato anche fra Paolo VI e lo scrittore toscano non credente Giuseppe Prezzolini. Dialogo di cui vale la pena di ricordare almeno un episodio. Interrogato da papa Montini sui modi migliori per avvicinare alla Chiesa chi era lontano dalla fede, lo scrittore rispose: "Di gente intelligente il mondo è pieno, quello che ci manca è la gente buona. Formarlo è il compito della Chiesa: per riattirare gli uomini al Vangelo, tutto il resto è secondario"».
Evidenziata la novità storica di questo dialogo, è inevitabile chiedersi a quali condizioni un confronto fra credenti e non credenti possa essere proficuo.
«Ritengo che ogni confronto intellettuale presupponga, a livello metodologico, un'umiltà di fondo, ossia l'adesione a quel principio di base della filosofia del dialogo di Guido Calogero secondo cui "nessuno può pretendere di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere". Inoltre è indispensabile che chi crede in Dio sia disposto a rapportarsi con rispetto a chi non crede in Dio e viceversa. Rispetto che da parte del credente sottintende la consapevolezza che se Dio fosse evidente come le verità matematiche tutti crederebbero in Lui e, da parte del non credente, la consapevolezza che se a favore dell'esistenza di Dio non ci fossero ragioni o argomenti nessuno crederebbe in Lui. Il dialogo serve se si è veramente aperti al confronto e quindi disposti a mettere in discussione le proprie idee e le proprie precostituite certezze. Altrimenti esso rischia di ridursi a un "dialogo tra sordi" oppure, come scrive Prezzolini, a un "colloquio fra bugiardi"».
Pensa che il confronto tra Francesco e Scalfari si muova sempre su questa linea oppure, come hanno rilevato alcuni interpreti (da Severino a Rusconi) in questa inedita forma di dialogo si celino anche taluni equivoci?
«Non posso negare che, al di là del suoi aspetti positivi, il confronto tra Francesco e Scalfari, almeno per quanto concerne alcuni temi cruciali, possa dare luogo a malintesi. Si prenda ad esempio il tema della verità. Scalfari chiede se ritenere che non esista alcuna verità assoluta ma solo una serie di verità relative e soggettive sia un errore o un peccato. Il papa risponde che nemmeno per chi crede si può parlare di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato e privo di relazione. Invece, secondo la fede cristiana, puntualizza Bergoglio, la verità è l'amore per noi in Gesù Cristo: "Dunque la la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive". Sembrerebbe dunque, a prima vista, che il papa faccia qualche concessione a Scalfari. In realtà, come mostra la seconda parte del discorso, dicendo che "ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro", Francesco, lungi dal flirtare con il relativismo conoscitivo ed etico del suo interlocutore, mostra di aderire alla tradizionale posizione antirelativistica della Chiesa. Ne segue che il "relazionismo" di Francesco ha poco da spartire con il relativismo di Scalfari e che quando i due interlocutori sostengono che la verità assoluta non esiste danno, a questa espressione, significati strutturalmente diversi. Causa di potenziali equivoci è anche il discorso sulla coscienza. Francesco ritiene che si debba obbedire alla propria coscienza e che il peccato c'è quando si va contro di essa. Ascoltare e obbedire alla coscienza, spiega il papa, significa "decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male". Convinzione ribadita anche nella recente intervista concessa a Scalfari, là dove si dice che "ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il male come lui li concepisce"».
In che senso?
«Che cosa intende precisamente Francesco con questa affermazione, che Scalfari ha giudicato una delle più "coraggiose" udite da un papa? Intende forse ciò che il fondatore di Repubblica ha in mente, ossia che che il soggetto, nella sua insindacabile interiorità, è fonte del bene e del male? Dubito che le cose stiano veramente così ossia che il papa intenda legittimare una qualche forma di soggettivismo etico. Infatti, la dottrina della Chiesa, di cui Francesco si proclama "il figlio", sostiene che la coscienza non crea il bene e il male, ma li riconosce. Su questo punto il Concilio Vaticano II è esplicito: "Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire". Altrettanto esplicita è la Veritatis splendor, che respinge la concezione della coscienza come realtà autoreferenziale. Tuttavia, poiché Francesco, nel suo empatico sforzo di "sintonizzarsi" con l'interlocutore, non si sofferma su questi basilari aspetti della dottrina cattolica il suo discorso rischia, per certi versi, di essere incompleto e concettualmente ambiguo.Tant'è che esso appare suscettibile d'interpretazioni diverse (e persino opposte). Inoltre non si capisce bene se il nuovo papa intenda essere "rivoluzionario" anche sul piano dottrinale (come ritiene o auspica Scalfari) o intenda proporre la dottrina di sempre in forme più "misericordiose" e vicine alla "sensibilità moderna". Tutto ciò non inficia, a mio avviso, gli aspetti positivi ed epocali del confronto tra Scalfari e il papa. Tanto più, questo è il mio augurio, che nel proseguimento del dialogo le ambiguità dottrinali potrebbero venir meno. E ciò nell'interesse di tutti, cattolici e laici».