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Voce «Filosofia»

dal Dizionario di filosofia

(si dà qui solo l'integrazione di Giovanni Fornero
alla voce originaria di Nicola Abbagnano, pp. 489-493)

La «filosofia della filosofia». – La F. novecentesca ha proceduto a una radicale messa in discussione di sé medesima. Partendo dal presupposto che non sia possibile filosofare senza interrogarsi, nel contempo, sulla natura e il destino della F., essa ha parlato innanzitutto e soprattutto di sé medesima. Già Dilthey aveva ammonito: «Dobbiamo fare della F. stessa l'oggetto della F. (Wir müssen die Philosophie selbst zum Gegenstand der Philosophie machen)», (Gesam. Schr., vol. VIII, 1960, pag. 234). Certo, appartiene all'essenza stessa della F., in quanto sapere critico, l'interrogativo sui propri compiti e sui propri limiti. Per cui, la F. è sempre stata, in qualche modo, un discorso sulla F. Tuttavia, nel XX secolo, tale sforzo di autocomprensione riflessiva e problematizzante ha finito per diventare il suo tratto saliente e per concretizzarsi sia nel bisogno metafilosofico di definire il carattere e il ruolo della F. sia nella necessità di «sapere se quel che prima era F. trovi ancora posto nell'insieme della vita presente» (H. G. Gadamer, I fondamenti filosofici del XX secolo, 1973, trad. ital. in AA.VV., Filosofia '86, Laterza, Roma-Bari 1987, pag. 191). La risposta a tale domanda – e a quelle analoghe formulate ad esempio da J. Habermas («A che scopo ancora la F.?») e da J. P. Revel («Pourquoi des philosophes?») – si è specificata a sua volta in un duplice e contraddittorio processo di autoconfutazione e di autoriabilitazione. Ne segue che «un discorso sulla F. di questo secolo non può non partire dalla sua pretesa dissoluzione, per sottolineare […] il continuo riproporsi della esigenza della 'F.'» (E. Garin). Dissoluzione e riproposizione che hanno, per soggetto, la F. stessa (poiché solo la F., in quanto sapere primo e radicale, può stabilire, di diritto, la propria scomparsa o la propria sopravvivenza).

Nicola Abbagnano

A) Dalla «critica» della filosofia alle teorie della «fine» della filosofia. – Il processo novecentesco di auto-confutazione della F. ha preso due forme: una «debole» e l'altra «forte». La prima consiste in una critica serrata della F. (classica e tradizionale). La seconda in una dichiarazione di fine della F. Queste due varianti, pur essendo distinte di diritto, di fatto risultano strettamente connesse (poiché la critica tende, sia pure non necessariamente, a trapassare nella crisi). Ciò appare già chiaro nella F. del secolo XIX. Ad es., dal rigetto dell'hegelismo, identificato con l'espressione più alta del logos filosofico, Marx perviene alla negazione «della F. in quanto F.» (Werke, I, 495 sgg.). Negazione che, da un lato, equivale a un rimpiazzo della F. con la «scienza reale, positiva» (o con la sua riduzione a «sintesi dei risultati più generali astraibili dall'osservazione storica degli uomini») e, dall'altro, ad una risoluzione-dissoluzione della F. nella prassi. Sul concetto di fine della F. insistono anche taluni passi dell'ultimo Engels: «Con Hegel ha fine, in modo generale, la F.: da una parte perché egli nel suo sistema ne riassume tutta la evoluzione nella maniera più grandiosa, d'altra parte perché egli, sia pure inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto dei sistemi ci porta alla vera conoscenza positiva del mondo» (Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, 1886, trad. ital., Editori Riuniti, Roma 1950, pag. 18 sgg). L'idea (marxiana) che la vocazione della F. sia quella di sopprimersi attraverso la sua realizzazione nella società comunista, sarà ripresa dal marxismo successivo e fatta propria anche da Adorno: «La F., che una volta sembrò superata, si mantiene in vita, perché è mancato il momento della sua realizzazione» (Dialettica negativa, 1966, trad. ital., Einaudi, Torino 19823, pag. 3). Nel Novecento, il processo di autocritica e autolimitazione della F. risulta emblematicamente rappresentato da: 1) Wittgenstein; 2) i neopositivisti; 3) gli strutturalisti.

1° Wittgenstein giunge a mettere in forse la stessa sensatezza della F. e delle questioni che essa ha affrontato nel corso dei secoli, avanzando l'ipotesi che i problemi filosofici – assimilati a «bernoccoli» o «crampi mentali» che l'intelletto si procura urtando contro i limiti del linguaggio – vadano dissolti più che risolti: «Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma […] solo constatare la loro insensatezza» (Tractatus, 4003; trad. ital., Einaudi, Torino 1995, n. e., pag. 43). Questo potenziale antifilosofico, che respinge ogni pretesa della F. di autofondarsi come discorso vero, raggiunge l'apice in alcune celebri proposizioni (Sätze) del Tractatus, dalle quali sembra che l'unico scopo della F. sia la propria autosoppressione terapeutica: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa)» (Ib., 6.54; pag. 109), «Su ciò, di cui non si puo parlare, si deve tacere» (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen; Ib., 7, pag. 109).

2° Anche i neopositivisti criticano «il caos dei sistemi e delle metafisiche» e si ispirano all'ideale di una «concezione scientifica del mondo» nella quale non vi sia più posto per «enigmi insolubili», facendosi portavoce di una «svolta della F.» in grado di rompere con il passato. Tuttavia, pur manifestando un atteggiamento liquidatorio nei confronti della maniera tradizionale (considerata «poetica e mistica») di fare F. e pur condividendo il concetto di una funzione autoprofilattica della F., il rigorismo neo-positivista non sfocia in un rifiuto della F., ma soltanto in un'autolimitazione di essa ad analisi logica del linguaggio scientifico: «L'insieme di tutte le scienze, con inclusione degli enunciati della vita quotidiana, è il sistema delle conoscenze. Non esiste, all'infuori di ciò, nessun dominio di speciali verità 'filosofiche': la F. non è un sistema di proposizioni e, quindi, non è una scienza. Ma allora, che cos'è la F.? […] noi riconosciamo in essa […] anziché un sistema di conoscenze, un sistema di atti. La F. è, insomma, quell'attività, mediante la quale si chiarisce o si determina il senso degli enunciati» (M. Schlick, Die Wende der Philosophie, 1930, trad. ital., in AA.VV., Il neoempirismo, Utet, Torino 1969, pag. 259). Quando la F. venga «purificata» da tutti gli elementi non-scientifici, scrive Carnap, «non rimane altro che la logica della scienza», la quale «prende il posto di quell'inestricabile groviglio di problemi che è noto sotto il nome di F.» (Sintassi logica del linguaggio, 1934, trad. ital., Silva, Milano 1961, pag. 378).

3° Analoghi atteggiamenti riduzionistici troviamo negli strutturalisti, i quali, partendo dal presupposto che la F. non abbia un oggetto e un metodo proprio, pervengono a una sorta di positivismo delle scienze umane, che assegna alla F. il compito puramente residuale di supporto analitico del sapere socio-antropologico. Tipica la posizione di Lévi-Strauss, che definisce la F. «ancilla scientiarum, serva e ausiliaria dell'esplorazione scientifica», ritenendo che essa sia «condannata a vegetare, a meno che non accetti di diventare riflessione sul sapere scientifico, il che sarebbe già molto» (Tristi tropici, 1955, trad. ital., Il Saggiatore, Milano 1960, pag. 50; L'uomo nudo, 1971, Il Saggiatore, Milano 1974, pag. 605).

Negli anni Sessanta-Settanta, l'idea che la F. potesse essere «sostituita» dalle scienze umane, coniugandosi con certo scientismo di matrice analitico-neopositivistica e con certo prassismo di derivazione marxista, ha contribuito a diffondere la tesi di una (imminente) «morte» della F. Tesi che, in Italia come all'estero, ha funzionato più da slogan polemico di talune retroguardie che si reputavano avanguardie che da dottrina criticamente sviluppata. Posizioni analoghe troviamo in certa «cultura della fine» (endism) di tipo tardomoderno o postmoderno, che ha continuato a proclamare «la fine della storia, la fine della lotta di classe. la fine della F., la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale […], la fine del soggetto, la fine dell'uomo, la fine dell'Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra […] la fine del fallocentrismo e del fallologocentrismo» (Su un tono apocalittico adottato di recente in F. 1983, trad. ital. in Di-Segno, Jaca Book, Milano 1983, pag. 58 sgg.).

B) Dalla filosofia alla «postfilosofia» – Teoreticamente e storicamente più consistente è il caso di tre autori che, persuasi di vivere in un momento di «svolta epocale», hanno esplicitamente teorizzato la fine della F. e l'avvento di una cultura post–filosofica; Heidegger, Derrida e Rorty.

1° Se già Rosenzweig, insistendo sulla traiettoria «suicida» dell'intelletto filosofico, aveva auspicato l'avvento di un «nuovo pensiero» (neue Denken) alternativo alla filosofia e alla teologia occidentale, Heidegger discorre senza mezzi termini di fine della F., identificandola con la fine della metafisica (v.), ossia di quella maniera di pensare (o meglio: di non pensare) l'essere che consiste nello scambiare l'essere con l'ente, in virtù di un'opera di presentificazione oggettivante immemore della differenza ontologica: «Il pensiero a venire non è più F., perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa» (Lettera sull'«umanismo», 1947, 1949, in Segnavia, 1967, trad. ital., Adelphi, Milano 1987, pag. 314); «Con la metafisica di Nietzsche la F. è compiuta. Ciò vuol dire che essa ha percorso tutto l'arco delle possibilità che le erano assegnate» (Saggi e discorsi, 1954, trad. ital., Mursia, Milano 1976, pag. 54). Più in particolare, Heidegger, pensando la metafisica alla luce del suo necessario superamento, fa coincidere la fine della F. con l'avvento di un pensiero essenziale antitetico al pensiero calcolante della scienza-tecnica: «Il pensare i cui pensieri non solo non calcolano, ma in generale sono determinati dall'altro rispetto all'ente, lo si chiami pensiero essenziale. Esso, invece di fare i conti con l'ente contando sull'ente, si prodiga nell'essere per la verita dell'essere» (Poscritto a «Che cos'é la metafisica?», 1943, 1949, in Segnavia, cit., pag. 263). Tale pensiero, come ribadisce il saggio La fine della F. e il compito del pensiero (1966), che tratta della realizzazione-dissoluzione della F. nelle varie scienze e tecniche, ha lo scopo di mantenere vivo il problema dell'essere, al di là del lungo oblio che ha caratterizzato la metafisica per 25 secoli. E ciò all'insegna di un «pensiero memorante» (An-denken) in grado di procedere al di là della concettualità logica della F. e di coniugare pensare e poetare: «Ogni meditante pensare è poetare, ogni poetare è un pensare. Pensiero e poesia si coappartengono grazie a quel dire, che ha già votato se stesso al Non-detto, perché è il pensiero come atto di ringraziamento» (In cammino verso il linguaggio, 1959, trad. ital., Mursia, Milano 1973, 1990. pag. 211).

2° Anche Derrida discorre di «fine della F.», intendendo. con questa espressione il venir meno della tradizione fono-logo-centrica che ha dominato la metafisica occidentale, in virtù della teoria del primato della voce rispetto alla scrittura. Tuttavia, essendo consapevole dei paradossi autoreferenziali e autoconfutativi impliciti nelle dichiarazioni di fine della F. (com'è possibile «dire» la fine della F., senza, al tempo stesso, smentirla?) egli rifiuta l'idea pura e semplice di una cessazione della F., ritenendola troppo sbrigativa e superficiale: «lo cerco di mantenermi al limite del discorso filosofico. Dico limite e non morte, perché non credo affatto a ciò che oggi si chiama comunemente la morte della F. (o la morte di qualsiasi altra cosa: il libro, l'uomo, dio)» (Posizioni, 1972, trad. ital., Bertani, Verona 1975, pag. 45). Ne segue che la line della F. coincide piuttosto con un «lungo addio», mai completamente portato a termine, alla metafisica. Un addio che si concretizza nel compito mai compiuto della decostruzione dei testi della tradizione: «il passaggio al di là della F. non consiste nel voltare la pagina della F. (il che equivale il più delle volte a mal filosofare), ma nel continuare a leggere i filosofi in un certo modo» (La scrittura e la differenza, 1967, trad. ital., Einaudi, Torino 1971, 1990, pag. 370). Da ciò la costitutiva duplicità dell'ottica grammatologica, sempre oscillante fra prosecuzione e oltrepassamento (v. Decostruzione; Grammatologia).

3° Anche Rorty ritiene che la F., intesa come quel tipo di sapere autofondato che pretende di atteggiarsi a giudice della scienza e della cultura nel suo complesso, sia finita («I pragmatisti pensano che la tradizione platonica abbia esaurito la propria funzione […] che la più grande aspirazione della filosofia [sia] quella di non praticare la Filosofia»). Tanto più che la ricerca di una «visione fissa e totale delle cose», cioè di una Verità o di un Vocabolario metatemporalmente validi si accompagnerebbe a una vocazione assolutistica che contrasta con la democrazia e il pluralismo: «Quando vengono in conflitto, la democrazia ha la precedenza sulla F.» (La priorità della democrazia sulla F., in AA.VV., Filosofia '86, Laterza, Roma-Bari 1987, pag. 44). Il discorso di Rorty è comunque articolato. Da un lato, egli dichiara la fine della F., assimilandola a una «malattia culturale» da cui occorre liberarsi, in vista di una nuova età postmetafisica e postfilosofica: «può darsi che l'immagine del filosofo proposta da Kant stia per tramontare com'è tramontata l'immagine medievale del prete. Se questo succede, anche gli stessi filosofi non prenderanno più sul serio la nozione che la F. sia in grado di fornire 'fondazioni' o 'giustificazioni' per il resto della cultura» (La F. e lo specchio della natura, 1979, trad. ital., Bompiani, Milano 1986, pag. 303); «Una cultura postmetafisica mi sembra non più impossibile di una cultura postreligiosa, ed egualmente desiderabile» (Contingenza, ironia e solidarietà, in La F. dopo la F., 1989, trad. ital., Laterza, Roma-Bari 1989, pag. 4). Dall'altro lato egli puntualizza che dopo la F. ci sarà ancora la F., in quanto ad essere finita non è la F. in quanto tale, ma la F. indirizzata a una fondazione sistematica dell'Essere e della Conoscenza: «non c'è pericolo che la F. si esaurisca. La religione non è finita con l'Illuminismo, né la pittura con l'impressionismo […] anche se la F. del XX secolo si avvia ad apparire come un confuso stadio di transizione […] ci sarà certamente qualcosa chiamato 'F.' dopo la transizione» (La F. e lo specchio della natura, cit., pag. 304). Convinzione ribadita in un intervento del 1990: «Sono spesso accusato di essere un pensatore della 'fine della F.' e vorrei cogliere quest'occasione per sottolineare ancora una volta […] che, semplicemente, la F. non è un genere di cosa che possa avere una fine: è un termine troppo vago e amorfo per sopportare il peso di predicati come 'inizio o 'fine'. Ciò che ha un inizio, e che potrebbe ora finire, sono tre secoli di tentativi indirizzati a gettare un ponte su un abisso che l'immagine rappresentazionalista della conoscenza e della ricerca di Cartesio ci aveva condotti a credere che fosse reale» (Venticinque anni dopo, in La svolta linguistica, 1967, 1992, trad. ital., Garzanti, Milano 1994, pag. 147).

Lo heideggerismo rappresenta la più esplicita e coerente teoria della fine della F. Meno radicale è la prospettiva di Derida e Rorty. Ancora più sfumata è l'ottica di Lyotard, che, pur avendo proclamato la fine dei metaracconti (v.) legittimanti della modernità (influendo sulle varie forme di endism postmoderno), non esclude l'esistenza di forme alternative di razionalità filosofica, basata sulla pluralizzazione e frammentazione dei saperi e sull'assenza di un «metagioco» linguistico di portata universale.

C) La «riabilitazione» della filosofia. – 1° Crisi e rinnovamento, morte e resurrezione, smentita e conferma della F., nel Novecento, procedono insieme. Infatti, al variegato filone della fine della F. si accompagna il non meno composito schieramento della riabilitazione della F. Tale riabilitazione si nutre di talune considerazioni di fondo: a) le teorie dello smantellamento della F. sono teoreticamente fragili, oppure enigmatiche (Heidegger) e ambigue (Derrida, Rorty). Nel migliore dei casi, non attestano la fine della F. in generale, ma solo l'esaurimento di determinate tradizioni di ricerca o di determinati modelli di filosofare; b) ogni negazione della F., come ha messo in luce Apel, rifacendosi ad Aristotele, è costretta a muoversi in una manifesta autocontraddizione performativa (v.), dovuta al fatto che non è possibile fare un discorso sulla F. che non sia, esso stesso, F. c) ogni pretesa di avere la F. dietro di sé o fuori di sé è puramente illusoria. Infatti, poiché la F. «seppellisce sempre i propri affossatori» (E. Gilson, The Unity of Philosophical Experience, Scribner, New York 1965, pag. 306), le sedicenti posizioni transfilosofiche tendono, prima o poi, a rivelarsi delle ingenuità filosofiche: «La sortita 'fuori dalla F.' è molto più difficile da pensare di quanto non immaginassero coloro che credono di averla già compiuta da tempo con disinvolta facilità, mentre in generale sono ancora sprofondati nella metafisica con tutto il corpo del discorso che essi pretendono di aver liberato» (J. Derrida;, La scrittura e la differenza, cit., pag. 366); d) le attività extrafilosofiche (scienza, politica, religione, arte ecc.) che dovrebbero «succedere» alla F. in realtà continuano a porre, esse stesse, pressanti interrogativi filosofici. Da ciò il paradosso di una disciplina – la F. – che è mantenuta in vita da quelle medesime attività che dovrebbero incarnarne la morte e il superamento (ad esempio, a differenza di quanto ritengono le teorie della «eliminazione» della F. per opera delle varie scienze, esiste un meccanismo ricorsivo-oligrammatico per cui ogni singola scienza, in una certa fase del suo sviluppo, tende a rigenerare, nel proprio ambito, la F., cioè il sapere critico e problematico da cui proviene).

2° Tutto ciò, insieme alla persuasione, di matrice greca, che l'uomo non possa vivere e pensare senza, con ciò stesso, filosofare, ossia senza assumere una serie di atteggiamenti critici intorno a se stesso, agli altri, al mondo e a Dio, ha reso problematica (e, per certi aspetti, obsoleta) l'idea di una «fine» della F. Vattimo stesso, pur partendo da premesse heideggeriane e postmoderne, ha respinto tale ipotesi, limitandosi a discorrere di una prosecuzione ironico-distorcente della tradizione. E già prima, Popper, reagendo a certo antifilosofismo di derivazione wittgensteiniana e positivistica (cfr. La ricerca non ha fine, 1976) aveva insistito sul fatto che, come esistono le teorie scientifiche o politiche perché esistono problemi scientifici o politici, così esistono le teorie filosofiche perché esistono problemi di natura specificamente filosofica (del tipo: si può parlare – e in che senso – di verità e progresso della conoscenza?; esiste l'induzione?; perché il realismo è un'ipotesi più convincente dell'idealismo?; che rapporto c'è fra mente e corpo?; la storia obbedisce a leggi necessarie oppure ha solo il senso che noi attribuiamo ad essa?; che cos'è la democrazia e perché risulta preferibile alla dittatura?; che validità hanno le norme morali? ecc.).

Fra gli studiosi odierni che si sono opposti alle molteplici espressioni della cultura della fine (comprese le versioni «deboli» di essa) spicca Alain Badiou, uno dei più tipici rappresentanti della riabilitazione tardonovecentesca della F. Convinto che la F. debba parlare di sé medesima, ma non possa limitarsi a parlare solo di sé medesima e che «il pathos della fine» abbia fatto il suo tempo, Badiou sostiene che è giunto il momento di proclamare la fine della fine: «Dal canto mio, credo che si debba annunciare, o enunciare, la fine di questa Fine» (La fin de la fin, in AA.VV., Confini della F., Ibis., Pavia 1994, pag. 20 e 30). Infatti, come si afferma nel Manifesto per la F. (1989), è bene che la F. si distolga dalla contemplazione narcistica e masochistica della propria (presunta) fine e prenda coscienza del fatto che essa, lungi dell'essere «compiuta» è ancora – e comunque – possibile (trad. ital. Feltrinelli. Milano 1991, pag. 12 e 46). Possibile come sapere autonomo e non come positivistico «lacchè» delle attività e dei saperi costituiti. Infatti, pur nutrendosi di una serie di input extrafilosofici, costituenti la base prefilosofica del filosofare, la F. «si perde se diviene l'ancella di questa o quella di tali condizioni […] Essa non esiste se non nell'autonomia del suo luogo di pensiero» (Ib., pag. 12). Possibile (tale è il senso del messaggio controcorrente di Badiou) non come «relitto pietrificato di un tempo che non è più», ossia come una forma di indagine arcaica o epigonale, dedita esclusivamente alla cura storico-archeologica della propria identità, bensi (per adoperare un'immagine del giovane Marx) come «anima vivente della cultura».

3° Indipendentemente dalle riflessioni metafilosofiche di questo o quell'autore. la F. tardonovecentesca, venendo incontro al diffuso «bisogno di F.» che caratterizza la cultura contemporanea – propensa a scorgere, nel filosofo, non «un mago delle parole, ingannato dai suoi stessi trucchi», bensì un custode di quella razionalità critica che è parte integrante dell'Occidente – si è rilegittimata a vari livelli (ontologico, logico, epistemologico, etico, estetico ecc.) e in varie direzioni (dalle F. generali alle cosiddette F.-al-genitivo: F. della scienza, della politica, del linguaggio, della religione. della medicina ecc.) concretizzandosi in una serie di correnti e proposte teoriche (dall'ermeneutica alla F. analitica) volte a far valere i diritti della F. Una F., si intende, programmaticamente conscia della ineliminabile storicità e pluralità dei discorsi umani – sempre situati e rivedibili – e delle differenze di cultura, tradizione, sesso ecc. che ne stanno alla base. Particolare rilevanza metafilosofica hanno rivestito sia il processo di «riabilitazione della metafisica», con cui la F., tramite le varie forme («analitiche » o «continentali», di pensiero neo-ontologico). e tornata a proporsi come discorso generale intorno all'essere (v. Metafisica; Ontologia); sia il movimento di «riabilitazione della F. pratica» (v.), con cui la F. è tornata ad avanzare la pretesa di possedere una competenza specifica circa una serie di ambiti – a cominciare da quello dei «progetti di vita» – che esulano dall'area del sapere scientifico e della ragione matematica e tecnica.

Questa rinascita dell'istanza critica ed etico-normativa, che ha trovato un'incarnazione peculiare nelle discussioni di bioetica (v.) e di ecologia (v.) e nel recupero delle nozioni di responsabilità (v.) e saggezza (v.), ha coinciso, di fatto, con una rinnovata fortuna del concetto della F. come uso del sapere a vantaggio dell'uomo.

Voce «Dio»

dal Dizionario di filosofia

(si dà qui solo l'integrazione di Giovanni Fornero
alla voce originaria di Nicola Abbagnano, pp. 300-304)

a) Nella seconda metà del Novecento la riflessione filosofica su D. è stata condizionata: 1) dall'attacco neopositivistico alla metafisica e dagli sviluppi del pensiero epistemologico; 2) dal successo del tema nietzschiano della »morte di D.»; 3) dalla critica heideggeriana all'ontoteologia occidentale.

1° Rifacendosi alla teoria neoempiristica di non-cognitività e insensatezza delle proposizioni metafisiche (v. Metafisica) Carnap ha contestato radicalmente il termine D., ritenendo che esso, come la maggior parte dei termini specificamente metafisici (l'Idea, l'Assoluto, l'Incondizionato ecc) sia senza significato. A dire il vero, precisa il filosofo, tale parola ha avuto un senso in una fase storica passata, ossia in quella contrassegnata dal pensiero mitico, quando si pensavano ancora gli dèi come nature fisiche, esistenti sull'Olimpo, in Cielo o nel mondo sotterraneo. Invece, dal momento in cui la metafisica ha sottratto D. da ogni rapporto con la realtà fisica, essa ha perduto il suo significato originario, senza riceverne un altro (Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, 1932-33, trad. ital. in AA.VV., Il neoempirismo, Utet, Torino 1969, pag. 512-13). Ayer afferma a sua volta che «Non vi possono essere verità trascendenti di fede religiosa, poiché gli enunciati cui teista ricorre per esprimere tali verità non hanno significato letterale» (Linguaggio, verità e logica, 1936, trad. ital., Feltrinelli, Milano 1961, pag. 154). Questo ateismo semantico, avverte Ayer, si distingue sia dall'ateismo tradizionale («Perché, se l'asserzione dell'esistenza di D. è un non senso, allora l'asserzione ateistica dell'inesistenza di D. è altrettanto un non senso») sia dall'agnosticismo corrente, poiché quest'ultimo non nega che i due enunciati «C'è un D. trascendente» e «Non c'è un D. trascendente» esprimano due proposizioni di cui una sia effettivamente vera e l'altra falsa, ma si limita a dire che «non abbiamo mezzi per decidere quale di esse sia la vera» (Ib., pag. 152). Ne segue che vale a proposito di D. (soprattutto di D.) il monito del primo Wittgenstein, ossia che »Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (Tractatus, 7; trad. ital., Einaudi, Torino n.e. 1995, pag. 109).

A differenza di Carnap e di Ayer, Popper ritiene che il discorso metafisico sia dotato di senso. Tuttavia, la sua impostazione epistemologica non risulta globalmente più favorevole alla teologia. Infatti, come hanno polemicamente chiarito Bartley e Albert, la teologia, non appartenendo al campo delle proposizioni falsificabili (cioe smentibili in linea di diritto e di fatto) risulta destituita di ogni valore conoscitivo e scientifico. Tanto più che essa, nel suo tentativo di «salvare» ad ogni costo l'idea di D., riesce a mantenersi in vita solo in virtù di continue «strategie di immunizzazione». A. Flew illustra questa tesi con un racconto tratto da J. Wisdom: «Una volta due esploratori giunsero in una radura nella giungla. Nella radura crescevano molti fiori e molte erbacce. Uno degli esploratori dice: 'Ci deve essere un giardiniere che ha cura di questa radura'. L'altro dissente: 'Non c'è nessun giardiniere'. Allora alzano le tende e organizzano turni di sorveglianza. Non si vede mai nessun giardiniere. 'Ma forse si tratta di un giardiniere invisibile'. Drizzano allora un recinto di filo spinato, vi fanno passare la corrente elettrica, perlustrano il recinto con i segugi (si ricordano, infatti, che L'uomo invisibile di H. G. Wells si poteva odorare e toccare, anche se non si poteva vedere). Ma nessuno grida mai per aver ricevuto la scarica elettrica. Nessun movimento del reticolato rivela qualcuno che tenta di oltrepassarlo. I segugi non abbaiano mai. Eppure il credente non è ancora convinto. 'C'è un giardiniere, invisibile, impalpabile, insensibile alle scariche elettriche, un giardiniere che non ha odore e non fa rumore, un giardiniere che viene di nascosto per aver cura del giardino che ama'. Lo scettico alla fine dispera: 'Ma che cosa rimane della tua asserzione originaria?'. Vuoi dirmi in che cosa il tuo giardiniere invisibile, impalpabile, eternamente sfuggente differisce da un giardiniere immaginario o anche da un giardiniere inesistente?'» (Teologia e confutazione, in AA.VV., Nuovi saggi di teologia filosofica, 1955, 1963, trad. ital., Dehoniane, Bologna 1973, pag. 132). Il significato di tale «parabola atea» è chiaro: se l'affermazione dell'esistenza di D. (simboleggiata dall'invisibile giardiniere) viene sottratta a qualsiasi controllo empirico non le si può più attribuire alcun senso e D. muore davvero, come dice Flew, «della morte di mille qualificazioni (the death by a thousand qualifications)».

2° ln un noto passo di La gaia scienza (1882) Nietzsche si fa portavoce della «morte di D.», ossia del tramonto epocale di tutte le «certezze» metafisiche, morali e religiose escogitate dall'umanità attraverso i secoli per esorcizzare il fluire caotico delle cose e per dare un ordine rassicurante alla vita: «Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: 'Cerco Dio! Cerco Dio!'? – E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. 'Si è forse perduto?' disse uno. 'Si è smarrito come un bambino?' fece un altro. 'Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?' gridavano e ridevano in una gran confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: 'Dove se n'e andato Dio?' gridò 'Ve lo voglio dire! Lo abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatòri, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande – e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!'. – A questo punto l'uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. 'Vengo troppo presto', proseguì 'non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino – non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perche siano viste e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane – eppure son loro che l'hanno compiuta!. – Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: 'Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio'?'» (af. 125, trad. ital. in Opere, ed. Colli-Montinari, Adelphi, Milano 1965, n. e. riveduta 1991, vol. V, t. 2, pag. 150-152).

Nietzsche fa coincidere la morte di D. con la nascita del superuomo. Solo chi ha avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà crudele del mondo è ormai maturo per varcare l'abisso che divide l'uomo dall'oltreuomo. Ne segue che la morte di D. costituisce si un «trauma», ma solo in relazione ad un uomo-non-ancora-superuomo. Viceversa, l'Übermensch, se ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo essere, la morte di D. e la vertigine da essa provocata, ha davanti a sé il »mare aperto» delle possibilità connesse ad una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data: «noi filosofi e "spiriti liberi", alla notizia che "il vecchio D. è morto", ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d'attesa – finalmente l'orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non e sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell'uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare. il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così "aperto"» (af. 343; trad. ital. cit., p. 240).

Rifacendosi alla profezia di Nietzsche e scorgendo, nel tramonto degli assoluti metafisici ed assiologici connessi all'idea di D., l'evento centrale ed onnipervadente della modernità, le varie correnti dell'ateismo novecentesco (esistenzialistiche, marxiste ecc.) hanno ritenuto di dover annunciare anch'esse, ognuna a suo modo, la morte inequivocabile di D. e la mondanizzazione totale dell'esistenza: «Vedi tu questo vuoto sulle nostre teste?», scrive Sartre in Il diavolo e il buon D., «Questo vuoto è D. Vedi l'apertura nella porta? Io ti dico: essa è D. Vedi questo buco in terra? D. Il silenzio è D. L'assenza è D., la solitudine dell'uomo è D. […] Non più cielo! Non più inferno! Nient'altro che la terra» (Paris 1951, pag. 267-68; v. Ateismo).

Negli anni Sessanta, in seguito ad un lungo processo di desostanzializzazione del divino, la formula nietzschiana è divenuta l'insegna di un modo di fare teologia – la cosiddetta «teologia della morte di D.» – che, paradossalmente, non si occupa più di D. ma piuttosto della sua «assenza». E ciò in vista di una rinnovata prassi dell'amore in grado di permettere all'uomo di essere totalmente uomo e alla storia di essere integralmente umana (W. Hamilton, The New Essence of Christianity, 1961; Th. Altizer, The Gospel of Christian Atheism, 1966).

Di «morte di D.» hanno parlato anche gli autori che si ispirano ad Auschwitz, scorgendo, nei suoi «campi della morte», il simbolo più drammatico della situazione dell'uomo «orfano » di D. In uno dei libri-testimonianza più significativi, E. Wiesel, raccontando dell'impiccagione di tre prigionieri, fra cui un bambino dagli «occhi tristi», scrive: »Dov'è dunque D.? […] Dov'e? Eccolo: è appeso lì a quella forca» (La notte, 1958, trad. ital., Giuntina, Firenze 1980, pag. 66-67). L'idea di un D. morente sulla forca di Auschwitz sta anche alla base del messianismo deluso di R. Rubenstein: «l'escatologia è una malattia, con la quale l'uomo dissimula a se stesso il volto tragico e in definitiva disperato del suo fato. C'è un solo messia che ci redime dall'ironia, dal lavoro e dalle angustie dell'esistenza umana. Egli verrà sicuramente. Ma egli è l'Angelo della morte» (After Auschwitz, Bobbs-Merrill, New York 1966, pag. 225). E già prima, in uno dei documenti più espressivi della cosiddetta letteratura delle macerie (che aveva come sottotitolo «dramma che nessun teatro vuole rappresentare e nessun pubblico vuole vedere») W. Borchet, descrivendo l'esperienza angosciante del silenzio di D., aveva parlato di un «D. nel quale più nessuno crede» (Draussen vor der Tür, 1947, Reinbek 197344, pag. 41-43). Da ciò la tesi di Adorno, ripresa da Jonas, secondo cui »nessuna parola risuonante dall'alto, neppure teologica, ha un suo diritto d'essere immodiñcata dopo Auschwitz» (Dialettica negativa, 1966, trad. ital., Einaudi, Torino 1970, pag. 332, corsivo nostro; v. Auschwitz).

3° Secondo Heidegger l'ontoteologia (v.) occidentale sorge sullo sfondo di un originario oblio dell'essere (concepito come il Ni-ente di ogni ente) e mette capo all'immagine di D. come il più essente tra gli essenti, ovvero alla rappresentazione dell'Assoluto come di una astratta ratio del mondo – una causa sui – imparentata con il «pensiero calcolante» della tecnica (per l'immagine di D. come «l'ente che più di tutti gli altri è» cfr. La dottrina platonica della verità, 1942, Segnavia, 1967, trad. ital., Adelphi, Milano 1987, pag. 190). A questo D., osserva Heidegger, «l'uomo non può né rivolgere preghiere, né offrire sacrifìci». Infatti, «davanti alla causa sui l'uomo non può né cadere in ginocchio pieno di reverenza, né può produrre musica e danzare. Così, il pensiero privo di un D., il pensiero che deve fare a meno del D. della filosofia, del D. come causa sui, è forse il più vicino al D. divino» (Identità e differenza, 1957, trad. ital., «aut-aut», n. 187-88, 1982, pag. 35-6). Con la denuncia della sostanza irreligiosa della metafisica e con la distinzione fra il D. filosofico e il D. divino, Heidegger, indipendentemente dal ruolo effettivo che tali nozioni rivestono all'interno del suo pensiero – che sul problema di D. è rimasto piuttosto reticente – ha contribuito ad avvalorare l'ipotesi, presente in ampi settori della cultura novecentesca, che D. non sia come lo si è filosoficamente rappresentato lungo i secoli (ossia attraverso i paramentri concettuali dell'ontologia greca e medievale).

b) Alla luce di queste prese di posizione, la teologia filosofica, cioè l'indagine razionale su D. e sulla sua essenza nascosta, è apparsa radicalmente impossibile, o perché destituita di qualsiasi valore cognitivo e linguistico, o perché priva di oggetto reale, o perché fondata su di un equivoco metafisico derivante da una ipostatizzazione ontica del divino. Conclusione che ha trovato ampi consensi in quei filoni della teologia novecentesca, soprattutto evangelica, i quali ritengono che l'unica via di accesso a D. sia la fede. A Fichte, il quale aveva affermato che «soltanto nella suprema fatica del pensiero si manifesta D.» (Die Anweisung zum seligen Leben, 1806, trad. ital., Lanciano 1913, pag. 86), Barth oppone che la ragione umana è di per se stessa «cieca nei confronti della verità di D.» (Nein! Antwort an Emil Brunner, München 1934. pag. 34) e Bultmann che »ogni discorso umano su D., condotto al di fuori della fede, non porta a D., bensì al diavolo » (Glauben und Verstehen, in Gesammelte Aufsätze, Bd I, Tübingen 1933, pag. 303). Di conseguenza, i teologi (Tillich, Rahner, Pannenberg ecc.) e i filosofi (v. oltre) che, a discapito di ogni proclamazione di ateismo semantico e di irrazionalismo fideistico, hanno continuato a credere in una qualche forma di teologia filosofica o di «filosofia di D.», si sono trovati di fronte alla necessità di dover legittimare le loro ricerche mediante un confronto critico con l'epistemologia, l'ateismo e l'heideggerismo. Tale confronto si è incarnato nell'imperativo di «parlare di D. oltre D.», cioè in maniera alternativa rispetto a una bimillenaria tradizione filosofica e teologica incentrata su categorie vetero-metafisiche come «causa ordinante», «causa creante», «causa immanente» ecc. In particolare: a) contro le strettoie del verificazionismo e del falsificazionismo si e affermato che il discorso filosofico su D., concepito come un gioco linguistico significante, dotato di una specifica portata cognitiva (e non puramente pratico-emotiva, secondo la tesi di Hare, Ramsey, van Buren ecc.), possiede delle peculiari modalità di controllo dei propri asserti, i quali non vengono elaborati nel vuoto, ma in rapporto a una realtà (di cui D. costituisce l'ipotesi esplicativa) che può confermarli o smentirli, sia pure non in modo certo e definitivo; b) contro le varie forme di ateismo si e affermato che la presunta «morte di D.» coincide, di fatto, con la morte delle rappresentazioni tradizionali di D. e con l'avvento di nuove maniere – postmetafisiche, postnichilistiche, postsessiste ecc. – di rapportarsi all'Assoluto. Maniere che partono dal presupposto del carattere inevitabilmente storico e locale, cioè prospettico e fallibile, del discorso umano su D., il quale si concretizza in una pluralità insopprimibile di voci, nessuna delle quali, in omaggio al principio postmoderno della «priorità della democrazia sulla teologia», può pretendere di azzerare le altre (cfr. AA.VV.. D. nella filosofia del Novecento, a cura di G. Penzo e R. Gibellini, 1993; AA.VV.. Con D. e contro D., a cura di A. Negri, 1995); c) contro Heidegger si e affermato che l'essere acquista un senso soltanto in riferimento a D. (e non viceversa) in quanto D. non è un ente, ma l'essere stesso.

c) La necessità di «pensare D. altrimenti» si è concretizzata sia nelle nuove teologie, ossia in quelle correnti teologiche che hanno perseguito l'ideale di un «parlare credibile di D.», che tenga conto delle inquietudini e dei quadri mentali dell'uomo contemporaneo (v. Teologia, Nuove), sia in nuovi modelli filosofici che hanno affrontato il problema di D. dal punto di vista di determinate tematiche: 1) D. e l'Altro (Lévinas); 2) D. e l'ingiustizia del mondo (Horkheimer); 3) D. e il male (Pareyson); 4) D. e Auschwitz (Jonas); 5) D. e la postmodernità (Marquard, Vattimo); 6) D. e la differenza sessuale (pensiero al femminile).

1° Lévinas parte dal concetto di una radicale trascendenza dell'Assoluto e sostiene che D., inteso non come l'essere sommo della ontoteologia, ma come l'inoggettivabile volto di tutti i volti, non si manifesta in qualche Gelassenheit di tipo mistico-quietistico, ma nella concrétude della relazione etica fra il Moi e l'Autre: «La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano», «Non puo esserci alcuna 'conoscenza' di D. a prescindere dalla relazione con gli uomini» (Totalità e infinito, 1961, trad. ital., Jaca Book, Milano 1980, pag. 73 e 76-77). Questa idea di una divinità che, anziché venir «tematizzata», richiede di essere «testimoniata», vien fatta coincidere con l'insegnamento più alto della Bibbia. che Lévinas legge in termini di Kerygma etico: «Mose e i profeti non si dan pena dell'immortalità dell'anima, ma del povero, della vedova, dell'orfano, dello straniero» (Difficile libertà, 1963, 19762, trad. ital. parz., La Scuola, Brescia 1986, pag. 76).

2° L'ultimo Horkheimer afferma che D. non è una certezza, ma una speranza, in quanto si identifica con la nostalgia e il desiderio (Sehnsucht) che, nonostante tutta la disarmonia che caratterizza il mondo «non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola» e che l'assassino «possa trionfare sulla sua vittima» (La nostalgia del totalmente altro, 1970, trad. ital., Queriniana, Brescia 1972, pag. 74-75). Tale speranza, precisa Horkheimer, deve rimanere tale, poiché se D., inteso come dogma positivo e oggetto di sapere, ha un effetto di separazione, inteso come nostalgia unisce e affratella (Studi di filosofia della società 1930-1972, 1972, trad. ital., Einaudi, Torino 1981, pag. 153).

3° Sforzandosi di ripensare daccapo il problema del male, Pareyson afferma che l'origine del negativo risiede in D., o, più precisamente, in quel «D. prima di D.» (formula con cui egli intende la libertà originaria dell'Assoluto) che, nell'atto di voler essere, istituisce inevitabilmente, insieme alla realtà del bene, la possibilità del male (sia pure a titolo di possibilità non scelta e non voluta). Ciò non dovrebbe comportare (almeno nelle intenzioni di Pareyson) alcuna demonizzazione o satanizzazione della divinità. Infatti, pur essendo il presupposto (ontologico) del male, D. non ne è l'autore (poiché il male si identifica proprio con ciò che egli non vuole e non fa). Il vero autore del negativo, cioè l'essere che ridesta il male dormiente in D., facendolo passare dalla possibilità alla realtà, è l'uomo: «La negazione, nata già vinta dalla libertà (divina), solo dalla libertà (umana) puo trarre nuova vita e vigore nuovo» (Filosofia della libertà, il melangolo, Genova 1989, pag. 26).

4° Jonas ritiene che di fronte al male nel mondo – e a quel male di tutti i mali che è Auschwitz – non si possa più sostenere la simultanea bontà, comprensibilità e onnipotenza di D. Infatti, rapportata al negativo, una divinità onnipotente «o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile» (Il concetto di D. dopo Auschwitz>, 1984, trad. ital., il melangolo, Genova 1990, pag. 34). Ma un D. privo di bontà cessa di essere D., mentre un D. totalmente incomprensibile è qualcosa di cui non possiamo neppure discorrere. Non resta quindi che abbandonare il problematico concetto di onnipotenza (per quanto «scandalosa» possa apparire questa scelta, soprattutto per chi è abituato a pensare D. «con la mano forte e il braccio teso»). In altri termini, se vogliamo continuare a discorrere di D., dobbiamo ammettere che Egli non e intervenuto ad impedire Auschwitz «non perché non lo volle, ma perche non fu in condizione di farlo» (Ib., pag. 35). Infatti, concedendo all'uomo la libertà, D. ha rinunciato alla sua potenza (Ib., pag. 36). Solo questa concezione finitista di D., secondo Jonas, riesce a conciliare la bontà e comprensibilità dell'Assoluto, senza cadere nella teologia manichea dei «due dèi» (Ib.).

5° I postmoderni sono convinti che il cambiamento di «statuto del sapere» verificatosi nelle società postindustriali (Lyotard) implichi un parallelo cambiamento di quella peculiare forma di sapere che è il sapere su D. Secondo O. Marquard il pluralismo postmoderno ha, come inevitabile risvolto teologico, il venir meno della tradizionale idea di un D. «unico» come «figura agente centrale». E ciò a favore di un «politeismo disincantato» che fa tutt'uno con il passaggio della monomiticità alla polimiticità (Apologia del caso, 1986, trad. ital., Il Mulino, Bologna 1987, pag. 52-56). Vattimo identifica il D. della metafisica con un D. violento, cioè con una divinità che possiede quei caratteri di onnipotenza, autorità e trascendenza che gli sono stati attribuiti dalle teologie naturali. A questa divinità egli contrappone un D. «non violento e non assoluto», ovvero un D. postmetafisico avente come suo tratto distintivo «quella vocazione all'indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana» (Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, pag. 31).

6° Contestando la monopolizzazione maschile della filosofia e il linguaggio monosessuale e andromorfico della teologia («divenuto così ovvio che si fatica ad immaginarne un altro») il variegato schieramento del pensiero al femminile, di cui è elemento trainante la corrente femminista, si batte per la morte del D. «maschio» e «patriarcale» e per l'avvento di un D. postsessista che, invece di ridurre le donne alla condizione di «cadaveri riconoscenti», funga da strumento di liberazione delle loro potenzialità represse. Mentre alcune di queste studiose si muovono nell'ambito della tradizione cristiana (di cui propongono una riforma dall'interno), altre sono approdate ad una filosofia radicale postcristiana. Emblematico il caso di M. Daly, che ritenendo il femminismo cristiano una sorta di mostro logico – in cui l'aggettivo contraddice il sostantivo – ha elaborato un'immagine di D. come Assoluto in divenire, ossia come verbo e non come sostantivo (Beyond God the Father, 1975; Gin/Ecology, 1978).

d) A questi nuovi modelli filosofici si contrappongono le filosofie dell'essere di ispirazione classica (v. Metafisica), ovvero quei sistemi di pensiero che, pur cercando di recuperare al proprio interno talune istanze della riflessione novecentesca su D., continuano a rifarsi ai modelli ontologici di matrice greca e medioevale, ritenendo che «se D. entra nella filosofia, anzi nella metafisica, vi entra […] come il principio, il fondamento, il senso stesso dell'essere» (E. Berti, Introduzione alla Metafisica, Utet Libreria, Torino 1993, pag. 113). A differenza degli studiosi per i quali la filosofia può parlare di D. solo indirettamente, e tramite un'ermeneutica del mito e della religione – tipica la posizione di L. Pareyson, secondo cui il D. dei filosofi, propriamente, non esiste in quanto «la filosofia incontra D. non direttamente, ma come centro del mito, di cui essa fa l'ermeneutica, come centro dell'esperienza religiosa, di cui essa è interpretazione» (Filosofia ed esperienza religiosa, in «Annuario filosofico», 1985, I, pag. 50) – i seguaci della metafisica tradizionale sostengono che la filosofia, oltre che occuparsi a proprio titolo, cioè in modo argomentativo, della divinità, ha il compito primario di dimostrarne l'esistenza (mediante le «prove» tradizionali o una loro rielaborazione aggiornata).

e) Questa impostazione «classica» viene rifiutata da coloro che, pur scorgendo in D. l'oggetto più alto del domandare filosofico – concepito come domandare radicale (radikales Fragen) – intendono contrapporre, alla metafisica rappresentazione della filosofia come «scienza di D.», una postmetafisica immagine di essa come custode del mistero di D. (e della sua differenza dall'uomo). In altri termini, secondo questi studiosi, nell'epoca del nichilismo e del «disincantamento del mondo», il compito della ñlosofia non sarebbe quello di «provare» D., ma quello di «mantenere vivo» il problema di D., sia nei confronti di ogni forma di indifferenza teoretica (la quale ritenga di «non doversi curare» di D.), sia nei confronti di ogni presunta soluzione metafisica o dogmatica (la quale ritenga di aver «chiuso i conti» con D.; cfr. W. Weischedel, Der Gott der Philosophen, 1971-72 e M. Ruggenini, Il Dio assente, 1997).