Concetto e critica
del romanticismo ottocentesco
nel pensiero di Nicola Abbagnano

Il modo specifico di intendere la nozione di romanticismo filosofico e la relativa critica «antiromantica» costituiscono uno degli aspetti più caratteristici dell'opera storica e teorica dell'Abbagnano, e uno dei dati che meglio definiscono il significato dell'«esistenzialismo positivo» nell'ambito del pensiero contemporaneo. Come ha scritto Norberto Bobbio, sarebbe difficile intendere «la personalità filosofica di Abbagnano negli ultimi anni e la parte da lui rappresentata nella filosofia italiana, senza rendersi conto della sua battaglia antiromantica. Il romanticismo è stato finalmente riconosciuto luogo di incontro di tutte le negazioni e di tutte le insofferenze. Sul piano del pensiero militante, il proposito più tenacemente perseguito da Abbagnano è stato quello di liberare la filosofia italiana dal peso della tradizione romantica, la cui ultima manifestazione erano stati i due "fratelli nemici", il positivismo ottocentesco e l'idealismo contemporaneo»1.

E come ha osservato Gianni Vattimo, «romanticismo», «romantico» e «antiromantico» (in senso tendenzialmente abbagnaniano) rappresentano termini ricorrenti e schemi polemici peculiari di tutto un indirizzo e una «mentalità» della filosofia italiana postbellica2.

Poiché nella pur vasta letteratura intorno ad Abbagnano manca uno studio su tale argomento – importante per la comprensione del senso stesso del suo filosofare – ci siamo proposti, in questa sede, di offrirne una panoramica esauriente, convinti, con gli studiosi citati, che la suddetta nozione e polemica rappresentino rispettivamente a) una delle idee direttive della Storia della filosofia e del Dizionario di filosofia (che figurano attualmente tra le opere più note e diffuse di storia generale del pensiero); b) uno dei momenti centrali della costruzione teoretica di A.; c) uno dei capisaldi dell'opposizione filosofica del dopoguerra al neoidealismo di Croce e Gentile3.

Come risulta da questo prospetto, la categoria abbagnaniana di romanticismo (e antiromanticismo) è al tempo stesso un canone specifico di interpretazione storica e uno schema referenziale polemico attraverso cui vengono fatte valere precise istanze teoretiche. Da ciò il duplice ruolo – di modello storiografico e di modello teoretico – che il concetto in questione gioca nell'opera complessiva del nostro. Sebbene strettamente connessi e reciprocamente illuminantesi, i due modelli sono tuttavia oggettivamente e operativamente distinti e il primo rappresenta, almeno in linea di diritto, un valore indipendente (autonomo) di cui è funzione variabile il secondo. Per questo motivo divideremo il nostro studio in due parti. Nella prima illustreremo il modo in cui lo storico A., facendo appello allo storiograficamente verificabile, ha inteso la nozione di «romanticismo ottocentesco». Nella seconda parleremo invece delle istanze critiche che il filosofo A., sulla base della sua posizione teorica, ha opposto al romanticismo del secolo scorso e ad ogni forma di atteggiamento (neo)-romanticizzante4.

Il concetto di romanticismo ottocentesco
nell'analisi storica di Abbagnano

Il termine abbagnaniano di romanticismo filosofico è polisenso. In linea di fondo si può dire che esso rivesta tre accezioni principali. La prima rimanda a quell'insieme di idee (speculative, estetiche, religiose ecc.) che informano in generale il Romanticismo tedesco, interpretato come fenomeno culturale tendenzialmente unitario caratterizzato da un'esigenza di infinito (o dall'intuizione di una Einfühlung del finito con l'infinito) che ne pervade le più disparate espressioni5. La seconda accezione – sotto il nome di «idealismo romantico» – si riferisce invece, più particolarmente e tecnicamente, alla fondamentale corrente filosofica che accompagna la fioritura del romanticismo germanico, cioè al movimento idealistico che va da Fichte a Hegel. Movimento che A. considera come corpo dottrinale mettente capo ad una metafisica dialettica dell'infinito antitetica alla filosofia del finito dell'llluminismo e del criticismo di Kant. Tra questi due significati di romanticismo, l'ultimo dei quali rappresenta una specificazione del primo, A. sembra privilegiare senz'altro il secondo. Nella sua Storia della filosofia «idealismo classico» (con sottolineatura dell'hegelismo) e «filosofia del romanticismo» finiscono infatti per fare tutt'uno (e ciò, se bene interpretiamo, non perché A. ritenga che l'idealismo debba essere inteso come la filosofia del romanticismo tout-court, ma in quanto vede esso la tendenza speculativa sistematicamente e storicamente più rilevante sorta nel suo ambito).

La terza accezione – che va sotto il nome di «romanticismo ottocentesco – è il risultato di un ampliamento di senso del termine e sta a indicare lo «spirito» proprio del pensiero dell'Ottocento, cioè l'atmosfera filosofica che ne caratterizza in modo tendenzialmente uniforme il paesaggio categoriale, al di là delle pur dissimili od opposte sistemazioni speculative. Nell'ambito di questa accezione – che è la più caratteristicamente «abbagnaniana» – l'espressione «romanticismo» perde ovviamente ogni riferimento specifico al movimento culturale del romanticismo tedesco per divenire, sulla base di una generalizzazione comparativa dei tratti formali comuni storicamente rilevabili nelle maggiori sintesi filosofiche del secolo scorso, – una categoria ideal-tipica designante lo schema generale del pensiero ottocentesco.

Questa peculiare assunzione del concetto di romanticismo spiega perché A., collocandosi decisamente al di fuori dei quadri interpretativi tradizionali, abbia avvicinato idealismo e positivismo – prospettando quest'ultimo come «l'altra delle due manifestazioni fondamentali del romanticismo»6 – e abbia sottolineato posizioni o «suggestioni» romantiche nelle varie filosofie ottocentesche, giungendo in tal modo a ritracciare un orizzonte concettuale, di impronta idealistico-romantica, che fungerebbe da nucleo unificatore delle espressioni filosofiche di buona parte del secolo7.

La tendenziale equazione tra Romanticismo e Ottocento (o meglio, tra «romantico» e «ottocentesco») che emerge in tal modo dallo schema interpretativo di A. – e che ne fa, a nostro giudizio, uno dei più notevoli tentativi compiuti dalla storiografia filosofica contemporanea per rintracciare le note generali della «Weltanschauung» dominante del secolo scorso – è stata incisivamente sottolineata da V. Mathieu in una recensione alla Storia della filosofia: «l'aver fatto rientrare sotto l'identica mentalità romantica due atteggiamenti ritenuti di solito cosi lontani come l'idealismo e il positivismo, costituisce il risultato più sorprendente e insieme più prezioso della V parte dell'opera […] L'unità organica del secolo XIX viene così ricostituita anche in un campo dove pareva mancare, o non era adeguatamente riconosciuta. In altri campi e per altre attività spirituali, dire che l'800 intero conserva, naturalmente attraverso una continua evoluzione, una sua mentalità tipica, di derivazione romantica, non stupirebbe nessuno: romantica l'arte, romantica la cultura, romantica ed unitaria l'intera concezione della vita […] Ma nel pensiero filosofico-scientifico quell'unità appariva rotta dall'ingombrante corpo estraneo del positivismo, che pareva andar contro alle esigenze più tipiche del romanticismo; mentre la continuità romantica restava affidata unicamente alla tardiva scoperta di Schopenhauer […] Eppure gli uomini che professavano filosofie positive erano ben uomini del loro tempo, e romantici, o quanto! Ora, rendendosi conto che le loro dottrine cercavano in realtà esse pure, anche se in modo diverso, di dare soddisfazione delle stesse esigenze del romanticismo, si guadagna assai in unità di visione e profondità di intelligenza. E "romantico" nel senso tecnico e più lato della parola (e un senso più tecnico e ristretto non si è mai riusciti a definire in maniera soddisfacente) può avvicinarsi senza rimorsi all'interpretazione popolare che ingenuamente lo identifica con "ottocentesco"» (V. Mathieu, rec. alla Storia della filosofia di A., in «Filosofia», I, 1950, pp. 305-11).

Precisando e completando le osservazioni di Mathieu e quelle che abbiamo fatto sinora, possiamo quindi affermare che quando A. parla di «spirito» romantico della filosofia ottocentesca intende riferirsi ai tratti formali di quell'universo speculativo che ha trovato una prima caratteristica espressione nell'idealismo romantico tedesco, e che appare poi tendenzialmente presente, al di la della fisionomia peculiare dei vari orientamenti, nella maggior parte delle correnti di pensiero fiorite nel XIX secolo. In altre parole, si può dire che A. si sia proposto di focalizzare, al di là dei contenuti sistematici e delle contrapposizioni polemiche, la struttura concettuale (emblematica) che sottostà alle molteplici manifestazioni del pensiero ottocentesco. A. ha poi denominato intenzionalmente questa struttura con la nozione generalizzata di «romanticismo» perché l'ha vista esemplificata, almeno nei suoi lineamenti più appariscenti e decisivi, nell'idealismo romantico tedesco – in Hegel soprattutto 8.

Secondo A. i punti nodali che definiscono il romanticismo ottocentesco – o il modello concettuale tramite cui esso può venire compreso – si condensano in alcune tesi di fondo che richiamano, a livello di astrazione generalizzante, posizioni che si possono principalmente ritrovare, nella loro concreta e contestuale specificità nell'idealismo tedesco (soprattutto hegeliano), nel positivismo (soprattutto comtiano ed evoluzionistico) e nello spiritualismo (sia della prima che della seconda metà del secolo). La possibilità del rinvenimento – che costituisce la condizioni intrinsecamente limitante dello schema – esclude ovviamente che tali tesi, proprio in quanto definiscono una «atmosfera», debbano caratterizzare tutte e necessariamente le filosofie in questione, o che debbano essere contemporaneamente presenti in ogni autore. In realtà esse esprimono punti di vista che, pur non essendo univocamente professati, rimandano a (supposte) posizioni-chiave del pensiero ottocentesco, che A. ha scelto ed evidenziato per la loro paradigmaticità, facendone momenti costitutivi del suo costrutto idealtipico – il quale, presumibilmente, non vuol essere una camicia di forza, ma un possibile strumento ermeneutico funzionalmente indirizzato alla messa in luce di costanti concettuali tipiche del pensiero del secolo scorso.

Premesso ciò, i motivi fondamentali che A. considera proprii dello «spirito» romantico possono venire identificati nei punti seguenti9.

1) Secondo A. il pensiero fondamentale del romanticismo ottocentesco è la concezione della realtà naturale ed umana come manifestazione di un principio infinito: «il romanticismo afferma che nell'uomo agisce una forza infinita di cui egli è solo manifestazione» (N. Abbagnano, Possibilità e libertà, cit., p. 26). Tale «forza infinita» è in primo luogo l'idea immanente del sistema di Hegel, che A. considera come il prototipo di ogni concezione infinitistico-romantica. Ma essa sta pure ad indicare ogni entità metaumana assoluta che entri comunque a costituire l'uomo e a definirne la condizione, ossia ogni realtà extra-esistenziale, immanente o trascendente, che funga da fondamento ontologico, piano di sviluppo e garanzia di realizzazione dell'esserci finito. La «forza infinita» di cui A. parla nel testo citato è dunque inclusiva, nella sua formalità, di una serie variabile di potenziali rimandi storici: all'lo di Fichte come all'Inconoscibile di Spencer, al Dio-provvidenza dello spiritualismo cattoicizzante come all'Umanità di Comte, all'Inconscio di Hartmann come all'Indistinto primordiale di Ardigò. Ovviamente tali dottrine divergono radicalmente tra loro nel modo peculiare di intendere la natura del principio infinito e i suoi rapporti con il finito. Secondo alcune di esse il Principio è una realtà dialettico-razionale immanente, per altre è l'Ignoto che si manifesta nell'evoluzione universale, per altre è un Dio trascendente e le sue creature mondane, per altre è un assoluto spirituale inconscio ecc. E il finito appare, di volta in volta, come realizzazione necessaria dell'infinito, come sua contingente manifestazione o come sua libera autorivelazione storico-temporale. Ma A. ritiene che queste definizioni «sistematiche», per altri aspetti importantissime, non siano tali dal punto di vista del loro comune convergere verso quello che egli ritiene l'assunto speculativo di base della filosofia romantica: la tesi della presenza, nella realtà e nell'uomo, di un principio di natura assoluta realizzante (o rivelante) gradualmente sé stesso nella molteplicità delle manifestazioni finite della natura e della storia – delle quali rappresenta, al tempo stesso, la struttura fondante, l'unità precostituita di senso e il vettore di direzione.

2) Un'altra dottrina di matrice romantica che secondo A. accomuna le filosofie del secolo scorso è la concezione della realtà come sviluppo necessario e divenire ascendente, cioè a guisa di un processo unico, continuo e immancabilmente progressivo. Questo schema evolutivo – che caratterizza tipicamente la Weltanschauung ottocentesca – è stato elaborato dapprima, per quanto concerne la storia, dall'idealismo tedesco (nei termini di «svolgimento razionale necessario») e dal positivismo sociale (nei termini di «epoche» o «stadi» di progresso). L'evoluzionismo lo ha esteso successivamente alla natura, facendone la base di una teoria generale dell'universo, valida per la formazione dei cieli come per il sorgere delle civiltà. Tale visione progressiva del reale è stata fatta propria anche dallo spiritualismo (tradizionalistico ed antipositivistico), che ha cercato di armonizzarne gli esiti con la tradizionale concezione teistica. Che l'idealismo abbia poi tentato di giustificarla mediante la nozione filosofica di dialettica e il positivismo per mezzo della nozione scientifica (ripensata metafisicamente) di evoluzione, non pregiudica, secondo A., l'identità del risultato. Entrambe le prospettive tendono infatti a concepire il reale (naturale e storico) come una successione unilineare di avvenimenti, ognuno dei quali, non soltanto è necessario per sé, ma è anche necessariamente collocato su un piano superiore rispetto ai precedenti – e in cui ogni periodo di apparente regresso segna la condizione di un ulteriore progresso. A. ritiene che tale quadro concettuale costituisca pure il fondamento delle grandi filosofie della storia (o della natura) del secolo scorso, cioè della loro visione del divenire come processo unitario rivolto a determinate mete. Infatti, queste filosofie, affermando la presenza di un'organizzazione razionalmente «esplicabile interna al divenire naturale e storico, hanno preteso di cogliere la struttura globale e la direzione di marcia delle rispettive realtà indagate – giungendo spesso, secondo un'operazione ricorrente nel secolo, a identificare l'umanamente desiderabile con il fattuale e/o lo scientificamente certo (e prevedibile). A. osserva conclusivamente come tale credenza nella realtà ontologica del progresso costituisca un autentico leit-motiv delle principali manifestazioni della cultura ottocentesca e rappresenti a) il comune spirito informatore del razionalismo assoluto come dell'evoluzionismo, del positivismo sociale come della filosofia italiana del risorgimento, del fichtismo come del materialismo dialettico marxista ecc.; b) l'a priori di ogni considerazione storica, sociologica, politica ecc.; c) il presupposto della convinzione circa le «sorti magnifiche» dell'umanità: «Tutte le speranze ottimistiche del secolo scorso si trovano condensate in quest'idea generale, che tuttavia ha la pretesa di affondare le sue radici nei fatti e di essere giustificata dai fatti» (N. Abbagnano, Per o contro l'uomo, cit., p. 153. Si vedano pure le voci del Dizionario relative a «progresso», «storia», «evoluzione» ecc.).

3) La concezione della realtà come manifestazione di un principio assoluto (variamente inteso) e la tesi della necessità del progresso (variamente giustificato) qualificano in senso generalmente ottimistico la filosofia romantico-ottocentesca. Tale ottimismo metafisico (particolarmente rilevante in Hegel, che identifica l'essere con il processo di autocostituzione della Ragione stessa) si accompagna ad un provvidenzialismo esistenziale e storico che ritiene la condizione e la sorte dell'uomo nel mondo come strutturate e garantite da un ordinamento necessario riportabile allo Spirito, alla natura, al «corso ineluttabile della storia» ecc.

«Dominata, nelle sue manifestazioni fondamentali, dal principio romantico che l'uomo è la realizzazione o la rivelazione di un principio infinito, questa filosofia aveva dato all'uomo la sicurezza di un destino infallibile, di un progresso ineluttabile verso le mete più alte». (N. Abbagnano, Possibilità e libertà, cit., p. 82.).

Secondo A. lo «spirito» romantico dell'Ottocento si identifica proprio con questo senso della sicurezza che l'idealismo (su base razionalististico-dialettica), il positivismo (su base meccanicistico-evoluzionistica) e lo spiritualismo (su base finalistica e teologica) hanno filosoficamente elaborato.

«Il finalismo della natura e il progesso della storia – esemplifica significativamente A. – sono le due espressioni dell'ottimismo filosofico. Le grandi sintesi speculative dell'Ottocento, dall'idealismo al positivismo, hanno dato una base diversa a questi due pilastri, ma si sono accordate nel tenerle in piedi. L'idealismo fondò questi pilastri sulla presenza, nel mondo, di una Ragione onnipotente che indirizza il divenire del mondo verso le istituzioni e le attività umane di natura più alta e spirituale (lo stato, l'arte, la religione o la filosofia). Il positivismo ritenne che al divenire del mondo presiedesse un meccanismo infallibile, destinato a garantire ia conservazione del genere umano e il suo progresso continuo. Nell`uno e nell'altro caso, l'uomo appariva come il fine ultimo dell'intera vita cosmica e le attività specificamente umane, cioè quelle spirituali, apparivano radicate nella sostanza del mondo e garantite da essa » (N. Abbagnano, Per o contro l'uomo, cit. pp. 152-3).

Il finalismo cosmico di cui parla A. in questo passo rimanda ad un altro punto che riunisce tipicamente idealismo, positivismo e spiritualismo ottocenteschi: cioè la concezione del reale come totalità dinamica che mette necessariamente capo all'umanità – concepita sia come forma d'essere che giustifica l'esistenza dell'essere stesso (la «deduzione» della natura dallo spirito di cui parla l'idealismo e, il «finalismo della creazione» su cui insiste lo spiritualismo) sia come lo sbocco inevitabile dell'evoluzione cosmica (ad es. la «ferrea necessità» con cui la natura, secondo Engels, produce sempre quel suo «frutto più alto» che è il soggetto pensante). Da quest'insieme di credenze scaturiscono quella «illusione della sicurezza» e quei «miti ottimistici» che, secondo A., caratterizzano (come si è detto) il clima deila filosofia e della cultura ottocentesca.

4) Il romanticismo ottocentesco tende inoltre, secondo A., a strutturarsi nei termini di una metafisica necessitaristica la quale sostiene che tutto ciò che accade nel mondo naturale e storico deve immancabilmente accadere – o per determinismo logico «a priori» intrinseco allo sviluppo dell'Io (idealismo) o per una serie di leggi naturali inderogabili (positivismo). Tale prospettiva conduce ad un privilegiamento del fatto e alla dissoluzione della normatività nella presenzialità, ossia alla giustificazione del reale così com'è al ripudio di ogni forma di dover-essere o di criterio valutativo. Questo atteggiamento, che si trova incarnato principalmente dall'hegelismo (il cui fine speculativo dichiarato è il «tenersi in pace con la realtà»), è riscontrabile – per A. – sia nell'idealismo che nel positivismo, in quanto «si può ritenere il fatto giustificato nel suo accadimento dalla catena causale che ad esso mette capo o dal principio infinito (Idea o Spirito) che in esso si realizza o si manifesta. In ogni caso la giustificazione è postuma e si adegua sul fatto che la vera misura o il vero criterio di giudizio o di valutazione, che dà lo stimolo alla giustificazione postuma della filosofia è semplicemente questo: il fatto è lì, c'è, è reale – nient'altro» (N. Abbagnano, Possibilità e libertà, cit., p. 79).

Per quanto concerne lo spiritualismo, sebbene esso respinga in linea di principio l'identificazione di essere e dover essere, la sua tesi di un disegno provvidenziale divino che presiede allo svolgersi degli eventi conduce a un'analoga accettazione-celebrazione del fatto o dell'ordine cosmico-storico di cui esso viene ritenuto espressione (v. ad es. il tradizionalismo). Secondo A. questo quadro concettuale rende ovviamente problematica (se non contraddittoria) l'affermazione della libertà esistenziale, che viene infatti negata o per lo più ridotta – secondo un modello largamente diffuso nel pensiero del secolo scorso – a un'adesione consapevole all'ordine precostituito delle cose, o all'anticipazione preveggente di un futuro immancabile (a cui bisogna adeguarsi).

5) Il pensiero ottocentesco risulta anche permeato, in virtù dei suoi presupposti intrinseci, da una mentalità assolutistica e totalizzanti cui sfuggono i limiti dell'uomo e del suo sapere. Tratti essenziali di essa sono ad es. a) l'incapacità di ammettere o giustificare filosoficamente le situazioni-limite dell'esperienza (la singolarità, il rischio, la morte, lo scacco…), cioè il tentativo di espellere il tragico esistenziale dal quadro della realtà autenticamente intesa mediante la sua riduzione «dialettica» (il male come momento necessario del realizzarsi del bene) o «storica» (il male come dato situazionale eliminabile). Secondo A. questa «rimozione» del negativo, particolarmente evidente nelle «filosofie divineggianti» dell'idealismo10 o nelle «filosofie del progresso» di ispirazione positivistica, è presente anche negli spiritualisti ottocenteschi, i quali, pur essendo più attenti agli aspetti della condizione creaturale, finiscono per «sublimarne» la drammaticità mediante certezze metafisiche (il rapporto garantito con il Valore, l'ordine provvidenziale della storia, il finalismo della natura…); b) L'ambizione di fornire, mediante il «sistema», una visione totalizzante del reale fondata su un organismo di verità necessarie. Questa tendenza si riscontra in primo luogo nelle filosofie dell'idealismo romantico – o nel loro concetto di un sapere assoluto – ma è pure rinvenibile negli assunti di certo positivismo o nello stesso ideale ottocentesco di «scienza»; c) L'esaltazione di un'attività umana (l'arte, la filosofia, la scienza ecc.) e il suo privilegiamento dogmatico a scapito di altre. Caso tipico è l'esaltazione positivistica della scienza: «il positivismo si presenta come l'esaltazione romantica della scienza, la sua infinitizzazione» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., p. 268).

Come si è detto, A. ritiene che questa costellazione concettuale rappresenti (nell'insieme dei suoi momenti) la forma mentis emblematica del pensiero ottocentesco. Di conseguenza, egli ritiene che la struttura filosofica esaminata sia presente, almeno in alcune delle sue idee-guida, anche in correnti di pensiero che si trovano in posizione di apparente «rottura» nei confronti delle filosofie dominanti del secolo. Ad esempio il pessimismo metafisico di Schopenhauer, sebbene antitetico all'ottimismo idealistico (e positivistico) ne condivide in pieno, per A., i presupposti ontologici assolutistici. Più che come un superamento sistematico e categoriale della filosofia idealistica, l'irrazionalismo del filosofo di Danzica viene infatti interpretato come una sorta di capovolgimento caricaturale del razionalismo hegeliano, del quale si ritiene siano presenti, seppure con segno cambiato, capisaldi essenziali: «Per Hegel – scrive A. nella Storia della filosofia – la realtà è ragione, per Schopenhauer è volontà irrazionale; ma per l'uno e per l'altro soltanto l'infinito è reale e il finito è apparenza. Hegel giunge ad un ottimismo che giustifica tutto ciò che è; Schopenhauer giunge ad un pessimismo che intende negare e sopprimere l'intera realtà. Ma l'uno e l'altro sono dominati dalla stessa brama dell'infinito ed hanno la stessa noncuranza dell'individualità […] Se da Hegel la libertà viene identificata con la necessità dialettica, da Schopenhauer viene esplicitamente negata, perché contraria al determinismo che regna in tutto il mondo del fenomeno» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. III, 142).

Inoltre la Volontà di vivere, o il mondo in cui essa si manifesta, viene pensata come l'espressione di un ordine teleologicamente strutturato secondo una serie di gradi o momenti culminanti nell'uomo. Perciò, sebbene pessimisticamente indirizzata, la concezione schopenhaueriana della realtà non si presenta come autentica alternativa (dottrinale e categoriale) alle forme mentali che, secondo A., sottostanno alla filosofia romantico-ottocentesca.

A. rileva «suggestioni» romantiche (nel senso suddetto) anche nella Sinistra hegeliana e nel marxismo classico. Scorgendo nel programma feuerbachiano di porre «l'infinito nel finito» il capovolgimento paradossale della dottrina hegeliana (la quale aveva posto il finito nell'infinito), A. scrive che «La filosofia di Feuerbach è il tentativo di capovolgere la teologia di Hegel in un'antropologia fondata sullo stesso principio, l'unità dell'infinito e del finito. Ma questo principio non si presta a fondare un'antropologia autentica, che non può essere che la ricerca del fondamento e della struttura del finito come tale. Perciò l'opera di Feuerbach, pur avendo prospettato con forza e vivacità polemica l'esigenza di una dottrina dell'uomo, non può dirsi che abbia contribuito in larga misura alla costruzione di questa dottrina» (Storia della filosofia, cit., vol. III, p. 177). Per quanto riguarda il marxismo, da un lato egli sottolinea come il materialismo storico, mediante il capovolgimento della teologia storica di Hegel in un'interpretazione antropologica della storia, si configuri come l'abbandono di ogni prospettiva infinitistica (come di ogni determinismo naturalistico di stampo positivizzante) a favore di un umanismo antiprovvidenzialistico. Dall'altro egli osserva come il marxismo ottocentesco, nonostante la sua visione della storia come autoproduzione dell'uomo in quanto essere finito, continui a muoversi nel quadro generale del pensiero del secolo, condividendone capisaldi essenziali: la visione della storia come concatenazione necessaria e progressiva di momenti, l'ottimismo escatologizzante, il monolitismo, l'impalcatura categoriale necessitaristica ecc. Se nel marxismo di Marx A. può tuttavia rilevare elementi che tendono a collocarsi oltre l'orizzonte della filosofia ottocentesca, nel materialismo dialettico di Engels (inteso come concezione globale della realtà naturale e storico-umana) egli scorge invece una tipica manifestazione della cultura dell'epoca, cioè una metafisica dell'evoluzione «interpretata nei termini delle formule dialettiche hegeliane e condotta al suo più ottimistico esito» (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit.; v. «materialismo dialettico»).

Vero antagonista e critico del romanticismo ottocentesco è piuttosto S. Kierkegaard di cui A. sottolinea soprattutto – al di là della dimensione teologica del discorso dello scrittore danese e della sua insistenza sul rapporto teandrico – il richiamo alla finitudine esistenziale, l'orientamento antiottimistico, l'esigenza demistificante e la tematizzazione del possibile come «sentiero dell'uomo» (N. Abbagnano, Kierkegaard e il sentiero della possibilità, in Aa.Vv. Studi Kierkegaardiani, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia, 1957). Nell'antinecessitarismo di Kierkegaard A. ha visto la più significativa eredità «esistenzialistica» del suo pensiero, nonché la prefigurazione della crisi generale della Weltanschauung prevalente nel secolo scorso: «Le filosofie ottocentesche fondavano il loro ottimismo sul concetto della necessità. Le leggi di natura sono necessarie, cioè non possono mancare di agire: perciò la sorte dell'uomo, che dipende da esse, è sicura. Il divenire dello Spirito, di cui l'uomo partecipa, è necessario, cioè non può cessare o mutare il suo corso: perciò la condizione e la sorte dell'uomo sono sicure. Kierkegaard nega questo fondamento perché non crede nella necessità. L'uomo vive nel possibile. Questo vuol dire che egli può essere o non essere in ciascuno e in tutti i suoi aspetti; che nulla della sua vita è sicuro e garantito, che tutto dipende da un "forse". Davanti ad ogni situazione in cui l'uomo viene a trovarsi, si apre un ventaglio di possibilità e ognuna di queste possibilità può realizzarsi o no. Ciò imprime alla vita dell'uomo un carattere di dubbio, di incertezza, di problematicità radicale. Tutto ciò che l'uomo può essere, sperare o conquistare è soggetto alla minaccia del nulla. E il sentimento che fa avvertito l'uomo di questa minaccia è l'angoscia […] Dopo la fine della prima guerra mondiale queste idee del solitario pensatore danese sono diventate il patrimonio dell'esistenzialismo e sono penetrate largamente nella cultura generale…» (Per o contro l'uomo, cit. p. 281).

In altre parole, secondo A., l'originalità maggiore di Kierkegaard sta nella messa in luce e nella critica della struttura categoriale – e non solo sistematica – del romanticismo ottocentesco. Ciò spiega perché egli attribuisca una «filosoficità» di fondo all'opera kierkegaardiana (vista come qualcosa di più di una semplice relazione passionale e fideistica al razionalismo metafisico) e perciò affermi che essa costituisce «un'alternativa radicalmente diversa da quella sulla quale l'idealismo romantico aveva indirizzato la filosofia europea» (Storia della filosofia, cit., vol. III, p. 181). Viceversa, A. ritiene che la dottrina della «infinità» e della «onnipotenza» del possibile avanzata in Il concetto dell'angoscia e La malattia mortale non sia coerente con la nozione del possibile stabilita nelle Briciole di filosofia e rappresenti una sorta di «contaminazione concettuale tra questa dottrina e la nozione romantica di infinito» (Storia della filosofia, cit., vol. III, p. 194).

L'antiromanticismo nell'opera teorica di Abbagnano

Tale maniera generalizzata di intendere la nozione di romanticismo, oltre che fungere da criterio interpretativo dell'Ottocento, è pure servita ad A. per fissare i nessi di continuità o di rottura sussistenti fra i grandi sistemi del secolo scorso e la filosofia del Novecento – da lui interpretata, almeno nelle sue punte più significative ed avanzate, come «crisi del romanticismo ottocentesco» (per l'applicazione storiografica di questa tesi rimandiamo al III vol. della Storia della filosofia, cit., parte settima). Se il romanticismo rappresenta lo schema generale del pensiero ottocentesco, l'anti-romanticismo costituisce infatti, secondo A., il tratto più importante e decisivo della filosofia e della cultura del Novecento. In un noto articolo su Dewey del 1948, dopo avere identificato la «avanguardia militante» del pensiero contemporaneo nello strumentalismo pragmatistico, nel neopositivismo e nell'esistenzialismo, A., tracciando una sorta di manifesto neoilluministico, scrive «Queste correnti hanno caratteri diversi ed anche opposti che vengono in luce nei loro urti polemici; ma partono da un comune presupposto, espresso o sottointeso, e questo presupposto è il carattere problematico dell'uomo e del mondo in cui l'uomo vive. Per queste correnti, il mito di un ordine stabile e definitivo del mondo, di una ragione assoluta che lo domini e lo diriga, di un destino progressivo che conduca l'uomo infallibilmente alle sue ultime mete, è caduto infranto. Il mondo è stato riconosciuto nella sua instabilità o precarietà fondamentale, la ragione stata ricondotta al problema della ragione, cioè al problema delle sue strutture e categorie, che perciò hanno perso ogni carattere preformato immutabile; l'uomo è stato riconosciuto come il problema dei problemi, come il punto critico in cui la problematicità dell'universo raggiunge una possibilità di soluzione e di scelta» (Verso un nuovo illuminismo: John Dewey, «Rivista di filosofia», XXXIX, 1948, pp. 313-25).

E parlando dell'esistenzialismo nella Storia della filosofia A. scrive: «Si è visto talvolta nell'esistenzialismo la filosofia della crisi. In realtà esso è la crisi della filosofia romantica, la sua crisi decisiva e finale» (Storia della filosofia, vol. III, p. 673. Citiamo dalla I ed., 1950).

Su questa «crisi del romanticismo ottocentesco», che costituirebbe dunque lo sfondo della problematica del nostro secolo, A. ha inteso lavorare non solo come storico, ma anche come filosofo. Infatti l'opera sua – tramite quel singolare intreccio tra fatica storiografica e impegno speculativo che la caratterizza – rappresenta al tempo stesso una presa di consapevolezza storica della crisi e uno sforzo autonomo di elaborazione dei suoi presupposti dottrinali e categoriali. E ciò mediante quell'organismo di idee che va sotto il nome di «esistenzialismo positivo» e «filosofia della possibilità», in cui A. ritiene confluiscano alcuni dei motivi più importanti della speculazione contemporanea. In tal modo, la nozione abbagnaniana di «antiromanticismo», oltreché fungere da schema di interpretazione storica del Novecento, rappresenta pure un momento centrale della sua tematica teoretica. L'illustrazione delle strutture e dei significati filosofici connessi all'antiromanticismo, inteso come atteggiamento e schema formale costituisce la seconda parte di questa indagine. Procedendo con l'usuale metodo analitico, possiamo rintracciare i tratti salienti della critica antiromantica di A. – che sono anche, in un certo senso, i tratti salienti del suo pensiero – nelle seguenti tesi di ordine generale11.

1) Secondo A. il nucleo «antiromantico» della filosofia contemporanea risiede in primo luogo nell'affermazione della finitudine intrascendibile dell'esistenza, cioè nella consapevolezza del carattere problematico dell'uomo e del suo mondo. A. – che concepisce l'esistenza come una struttura progettante abbandonata alle proprie possibilità ed originariamente priva di supporti ontologici necessari –, contrappone il suo «umanismo del possibile» a tutte quelle forme di pensiero che tendono invece a considerare l'uomo come costituito in qualche modo da entità metaproblematiche o transtinite comunque intese. A. include di fatto, nell'infinito romanticamente inteso, ogni realtà extra-umana necessaria che funga da fondamento e garanzia di realizzazione dell'esistenza – cioè le varie «figure» dell'infinitismo ottocentesco. Di conseguenza, egli classifica e rifiuta come «romantiche» (o «neoromantiche») le filosofie che affermino in qualche modo, sull'esempio dei sistemi ottocenteschi, una strutturale e provvidenzialistica presenza dell'infinito nel finito lo che considerino l'uomo stesso come un infinito attuale o potenziale12.

2) Il rifiuto abbagnaniano della «nozione romantica di infinito» si accompagna alla polemica contro il modello di sviluppo teorizzato dalle filosofie ottocentesche. Individuata nell'idea di processo graduale ascendente una tipica forma mentale del secolo scorso, il nostro ha costantemente proceduto alla sua confutazione, denunciando soprattutto (e in ciò risiede l'originalità) lo schema necessitaristico che ne sta alla base. Infatti la polemica di A. contro lo storicismo ottocentesco (nelle sue varie accezioni) non verte sulle idee di divenire o progresso in sé e per sé considerate (come accade in taluni autori, che si limitano semplicemente a negare o a capovolgere il punto di vista del secolo scorso), bensì sulle nozioni di svolgimento necessario che esse presuppongono. L'opposizione di A. ai concetti di dialettica (idealisticamente o materialisticamente intesa) e di evoluzione (positivisticamente o spiritualisticamente pensata) trova qui la sua principale ragion d'essere. Rivendicando la strutturale umanità e problematicità della storia, A. afferma che nel campo degli avvenimenti antropologici non esistono tappe univoche ed obbligate di sviluppo, formanti un processo chiuso totalisticamente configurato, ma soltanto possibilità alternative di direzione – nei confronti delle quali l'uomo, come «singolo» e come «società», appare ineludibilmente chiamato in causa. In altri termini, A. rifiuta le categorie dialettiche ed evoluzionistiche nella misura in cui esse assumono la nozione (tipicamente hegeliana) di totalità processuale necessaria come schema interpretativo privilegiato della storia o della realtà in genere. Per quanto concerne quest'ultimo punto A. sostiene che dall'angolo visuale della scienza contemporanea non esistono fondamenti sufficienti per ritenere come probabile l'ipotesi di un'evoluzione cosmica che dalla nebulosa primitiva vada sino all'uomo (e magari ad un superuomo) attraverso una serie di sviluppi graduali necessitaristicamente strutturati.

«In realtà la scienza in uno soltanto dei suoi domini, quello della biologia, ha raccolto prove sufficienti per giustificare l'ipotesi evolutiva. Ma passare dall'evoluzione biologica all'evoluzione universale, includendo nello stesso processo unilineare la storia dei cieli e la storia della terra, quella degli organismi o quella della civiltà umana, è un salto mortale in favore del quale non si può addurre alcuna prova o indizio e che la scienza è completamente incapace di giustificare» (Per o contro l'uomo, cit., pp. 203-4).

Inoltre – e questo per A. è il dato decisivo – nello stesso campo della biologia l'evoluzione sembra aver perso proprio quei caratteri che l'evoluzionismo filosofico aveva privilegiato di essa: l'unità, la continuità, la necessità e il progresso: «così nella sola disciplina scientifica nella quale il concetto di evoluzione e un'effettiva ipotesi di lavoro, esso non offre alcun appiglio alla metafisica dell'evoluzione che ancora viene presupposta o accettata da molte dottrine filosofiche» (Per o contro l'uomo, cit., pp. 203-4).

Secondo A., l'abbandono del modello ottocentesco di sviluppo, implicando la consapevolezza circa «il pluralismo delle alternative che si offrono ad ogni stadio della realtà naturale ed umana» (op. cit., p. 307), segna pure lo scacco definitivo delle filosofie della natura e della storia del secolo scorso, e il venir meno di ogni pretesa speculativa circa il disvelamento di un senso o piano unitario obiettivo sottostante globalmente alle vicende naturali o antropologiche. Inoltre il progresso cessa di essere la sostanza o la molla intrinseca della realtà per divenire, neoilluministicamente, un compito che gli uomini devono realizzare, cioè un dover-essere problematico che va continuamente riproposto nelle sue condizioni di possibilità.

3) La conseguenza più significativa che A. ritiene di dover trarre da queste analisi è un risoluto atteggiamento contro~ottimistico e demistificatore circa la situazione umana nel mondo e le sue prospettive reali. La crisi della concezione «romantica» della natura e della storia significa infatti, per A., la fine di ogni illusione esistenziale e la lucida presa di coscienza del fatto che l'uomo si trova a vivere in un universo «difficile» che non gli offre garanzie precostituite di alcuna sorta: «La caduta del presupposto romantico ha fatto perdere all'uomo la sicurezza dell'infallibilità del proprio destino. Il mondo gli si è rivelato nella sua instabilità fondamentale, cioè tale da non garantirgli nulla in anticipo e da rendere possibile che siano rimesse ad ogni istante in questione le conquiste ritenute più salde» (Storia della filosofia, cit., vol. III, p. 274 [citiamo dalla I ed.]).

In altre parole, il principale «messaggio» filosofico che A. vede emergere dal crollo delle prospettive metafisiche ottocentesche è la tesi secondo cui la condizione umana non può in alcun modo venir ricondotta entro strutture ontologiche favorevoli comunque intese: «Il romanticismo afferma che il mondo in cui l'uomo si trova, come manifestazione della stessa forza infinita che agisce nell'uomo, ha un ordine che garantisce necessariamente la riuscita finale delle azioni umane. L'esistenzialismo afferma che l'uomo è "gettato nel mondo", cioè abbandonato al determinismo di esso, che può rendere vane o impossibili le sue iniziative» (Possibilità e libertà, cit., p. 27).

La conclusione di queste notazioni critiche è dunque, secondo A., la raggiunta chiarezza sulla insecuritas strutturale dell'uomo e del suo mondo, cioè l'abbandono di ogni ottimismo «superficiale e di comodo» circa la stabilità della vita – la quale, non essendo metafisicamente protetta e indirizzata, si definisce come un'avventura (sia pur razionalmente progettabile) irriducibile al realizzarsi di un ordine cosmico o storico metaproblematico. Tale atteggiamento «che tende a mettere polemicamente in luce l'instabilità, i contrasti, gli aspetti negativi e sconcertanti che l'esistenza offre, in quanto è sempre, anche in ciò che presenta di meglio, possibilità del male, dell'errore e del nulla» (op. cit., p. 82), non implica, secondo A., pessimismo. Infatti il pessimismo filosofico non rappresenta l'opposto critico dell'ottimismo, ma soltanto un suo capovolgimento dogmatico, poggiante sull'analogo presupposto di un ordine prestabilito e immodificabile delle cose umane (e della realtà in genere). L'alternativa autentica al venir meno del provvidenzialismo metafisico e storico-esistenziale dell'Ottocento non è, secondo A., il pessimismo – bensì la consapevolizzazione del fatto che «le sole possibilità su cui l'uomo può contare sono quelle che egli riesce a scorgere nelle concrete situazioni in cui si trova e a realizzare con la sua intelligenza e il suo coraggio» (N. Abbagnano, Fra il tutto e il nulla, Milano, 1973, p. 257).

4) L'antiromanticismo di A. si concretizza anche in un'istanza metodica volta a salvaguardare gli elementi costitutivamente limitanti della nostra situazione esistenziale (la singolarità irriducibile, la problematicità, il pluralismo delle alternative e dei progetti…) e del nostro sapere («l'umanità» della filosofia, il carattere ipotetico-probabilistico degli apparati concettuali…). Si profila così l'idea di un'analitica filosofica che sia in grado di indagare l'esperienza esistenziale, storica, scientifica o politica dell'uomo senza evadere dall'ambito dei condizionamenti strutturali che la definiscono e che ne qualificano l'orizzonte di pensabilità13. A. vede concretizzata tale direttiva di ricerca in un «empirismo metodologico» fondato sulla nozione di possibilità e teso ad evitare le «illusioni» del definitivo e del monolitico. «Realizzando in sé la categoria della possibilità la filosofia dovrà sottrarsi agli allettamenti della dogmatizzazione, dell'assolutismo e dell'intolleranza e incarnare quella categoria stessa nella forma autentica della libertà» (Possibilità e libertà, cit., p. 137).

5) Le sopracitate divergenze di A. con il romanticismo ottocentesco tendono quasi tutte a risolversi, a ben guardare, in un'antitesi categoriale di fondo, cioè in un conflitto di strumenti concettuali. Egli ritiene che la necessità costituisca l'orizzonte implicito od esplicito di gran parte del pensiero del secolo scorso, cioè l'ambito generale entro cui si collocano i suoi modelli ermeneutici, le sue costruzioni sistematiche e le sue tesi peculiari. Per questo, alla concezione della necessità come modalità ontologica primaria e al suo privilegiamento metodologico e dottrinale, A. contrappone l'orizzonte della possibilità (o della finitudine), inteso come piano categoriale alternativo attraverso cui avviene la messa in crisi dello «spirito» romantico e dei suoi concetti (per questa visuale analitica rimandiamo soprattutto al Dizionario di filosofia, cit.). Ma l'insistenza abbagnaniana sul «problematico» implica soprattutto il rifiuto della cristallizzazione metafisica del fatto, cioè la critica della categorizzazione romantica (o «neoromanticizzante») della presenzialità: «In verità, smantellato come visione del mondo, rinnegato nei suoi atteggiamenti più appariscenti, il romanticismo ancora agisce nella filosofia contemporanea con la sua eredità più pesante e subdola: il fittizio ed opprimente primato della presenzialità e del fatto» (Storia della filosofia, vol. III, p. 727 [citiamo dalla I ed.]).

Al necessitarismo giustificazionistico del modello romantico (che costituisce uno dei suoi bersagli prediletti) A. oppone invece la sua visuale problematicistico-normativa, che risolve l'essere (esperienziale) nelle sue possibilità, evitando ogni irrigidimento sostanzialistico delle sue strutture.

L'abbandono dell'ottica necessitaristica rappresenta pure, secondo A., il presupposto indispensabile per un'adeguata intelligenza e fondazione della scelta, – sulla cui base soltanto l'uomo può autocomprendersi in termini di libertà esistenziale. A. ritiene mistificatorio, in qualsiasi forma si presenti, il punto di vista romantico dell'identità libertà-necessità e sostiene che la scelta non può mai essere ridotta all'accettazione consensuale di unordine dato, in quanto essa implica pur sempre la costruzione di un ordine storico-esistenziale la cui responsabilità è fondamentalmente nelle nostre mani. In conclusione, mentre l'atteggiamento romantico implica, dal punto di vista di A., l'assunzione dell'umano in un ordinamento metaumano necessitante, l'atteggiamento antiromantico richiama la tesi di un assetto pluralistico e problematico della realtà, nei confronti della quale l'uomo può erigersi ad attore responsabile.

L'istanza antiottocentesca di A. sfocia dunque nella rivendicazione della libertà condizionata dell'esistenza, nella quale è ravvisato «l'aspetto fondamentale della nostra umanità» (Possibilità e libertà, cit., p. 20). In tal modo, il contro-romanticismo di A. si qualifica come il risvolto polemico di una posizione filosofica il cui assunto di base sta nella fondazione critica del finito e il cui senso profondo risiede nella tesi della «presenza» intrascendibile dell'uomo e delle sue scelte. In altre parole, se l'esistenzialismo si è storicamente costituito come «summa di tutti gli elementi di critica che hanno finito per distruggere, nella cultura occidentale, il dogmatismo assolutistico dell'Ottocento, i suoi miti ottimistici e il suo senso di sicurezza fittizia» (op. cit., pp. 24-25), la filosofia della possibilità di A, (in cui è venuto risolvendosi l'esistenzialismo «positivo») ha inteso portare a compimento e alla sua piena consapevolezza) questa situazione tramite una «ermeneutica della finitudine» mirante ad un recupero critico dell'uomo e delle sue possibilità.

Secondo A. il «romanticismo», pur essendo una categoria filosofica storicamente identificabile con lo «spirito» del pensiero ottocentesco, indica pure una disposizione speculativa (ed esistenziale) costante, cioè una possibilità di filosofare ri-corrente e ri-assumibile. Di conseguenza, egli impiega talvolta il termine di romanticismo (o «neoromantìcismo») anche per indicare posizioni postottocentesche che presentino tratti concettuali tipici delle esperienze filosofiche fondamentali del secolo scorso. Infatti classifica e confuta come «romantiche» posizioni novecentesche che si richiamano esplicitamente a modelli speculativi dell'Ottocento (ad es. il neoidealismo hegelianeggiante di un Croce) o che presentano, a suo giudizio, «involuzioni» o «ritorni» a schemi romantici (ad es. l'ultimo Heidegger)14. Tale assunzione del romanticismo ottocentesco (inteso come struttura o modello concettuale) ad atteggiamento filosofico costantemente possibile (almeno nei suoi tratti di fondo), implica, dal punto di vista di A., una (relativa) validità trans-situazionale della polemica contro-romantica. In altri termini, A., pur avendo esplicitato egli stesso l'humus e il risultato culturale del suo antiromanticismo – che è nato e ha dato i suoi frutti storicamente più significativi nell'ambito del processo di liberazione della filosofia italiana dall'eredità del crocianesimo e dell'attualismo – rifiuta la riduzione «cronologica» della sua critica, in quanto la ritiene antidoto sempre possibile ad una forma mentale tendenzialmente ricorrente e suscettibile di aperte e inconsapevoli «riprese», sotto mutate spoglie, nell'ambito di altri contesti culturali.

Note

* Riproduzione del testo originale con qualche ritocco formale e breve aggiunta.

1 N. Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, in N. Abbagnano. Scritti scelti, Torino 1967, p. 30.

2 Abbiamo annotato questa osservazione di Gianni Vattimo durante una lezione dell'anno accademico 1971-72.

3 N. Abbagnano, Storia della filosofia, 3 vol., Torino 1946-50 (di quest'opera esistono più edizioni e ristampe. Di solito, salvo avviso contrario, noi citeremo dalla 2 ed., 1963). Dizionario di filosofia, 1961 (cit. dalla 2 ed., 1964) – Questi lavori sono conosciuti anche all'estero e ne esistono traduzioni in spagnolo, portoghese e (parziali) inglesi.

4 Data la natura letterariamente frammentaria del dettato di A., nel corso del nostro lavoro abbiamo proceduto metodo sistematico, cercando di riprodurre in un'unitaria visione d'insieme la globalità del suo pensiero intorno all'argomento utilizzando tutti i documenti disponibili a tale riguardo. Per una bibliografia esauriente rinviamo al volume (a cura di Bruno Maiorca) Bibliografia degli scritti di e su Nicola Abbagnano (1923-1973), Torino 1974.

5 Secondo A. l'unità culturale e problematica del periodo romantico è l'unità medesima del suo tema di fondo: il rapporto finito-infinito (sia che questo venga prospettato in termini di immediatezza sentimentale oppure di mediazione concettuale). Ciò spiega 1) perché A., collocandosi da un punto di vista più ampio, tenda a superare le abituali contrapposizioni tra romanticismo letterario e sistemi idealistici; 2) perché consideri Hegel non solo come partecipe del clima romantico, ma come «la più alta voce filosofica del romanticismo stesso» (v. Per o contro l'uomo, Milano 1968, p. 328).

6 N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. III, p. 26. – A questo proposito e bene sottolineare come A., avvicinando idealismo e positivismo nella comune «mentalità» romantica, non abbia inteso misconoscere né la ovvia diversità tra le due esperienze culturali, né la dissimile situazione oggettiva entro cui esse si collocano, né il legame positivismo-illuminismo. In altri termini, A., non ha voluto ridurre il positivismo all'idealismo (come si è detto talora), né ha voluto sacrificare alla ricerca dei tratti formali comuni la rilevazione delle diversità dei contenuti dottrinali specifici (del resto macroscopicamente visibili). Piuttosto, ciò che A. ha inteso originalmente mettere in luce nella Storia della filosofia è soprattutto: a) che il positivismo in generale, pur essendo e ponendosi come antitetico all'idealismo, condivide con esso quella mentalità monolitica, assolutizzante ed ottimistica che ne fa «il romanticismo della scienza»; b) che la concezione comtiana del sapere e della storia mette capo ad un sistema chiuso per molti versi analogo a quello hegeliano; c) che il positivismo evoluzionistico è il frutto di una generalizzazione metafisica della tesi dell'evoluzione biologica, attuata mediante la tacita assunzione del principio romantico-idealistico dell'autorivelazione progressiva dell'infinito nel finito. – Per un altro avvicinamento fra Hegel e Comte, che prospetta in chiave sociologica e storico-materialistica quelle analogie che A. si limita ad evidenziare sul piano delle «strutture concettuali» v. Oskar Negt, Hegel e Comte (trad. it. di F. Bassani), Il Mulino, Bologna 1975.

7 Nella «tilosofia del romanticismo» (cosi si intitola la VI sezione del III vol. della 2 ed. della Storia della filosofia) A. non include le correnti filosofiche (neocriticismo, storìcismo tedesco ecc.) che rappresentano – sia dal punto di vista cronologico che concettuale – forme di trapasso dalla problematica ottocentesca a quella propriamente novecentesca (sebbene A. non tralasci di rilevare, qua e là, perduranti e sostanziali influssi «romantici»).

8 A questo punto risulta chiaro come nella nozione abbagnaniana di «romanticismo ottocentesco», più che la denominazione in sé conti piuttosto il concetto storiografico a cui il termine rinvia.

9 La più nota schematizzazione abbagnaniana dei caratteri del romanticismo si trova nell'articolo Morte o trasfigurazione dell'esistenzialismo (ora in Possibilità e libertà, Torino 1956 – e ripreso nella voce «esistenzialismo» del Dizionario). Poiché in tale quadro non figurano determinazioni essenziali altrove attribuite al «romanticismo» – inteso impropriamente come schema generale del pensiero ottocentesco – noi, pur riferendoci in linea di fondo ad esso, abbiamo cercato di renderlo più adeguato alla totalità del pensiero di A. in proposito.

10 «Il romanticismo considera insignificanti certi aspetti negativi dell'esperienza umana come il dolore, lo scacco, la malattia, la morte perché essi non toccano il principio infinito che si manifesta nell'uomo e perciò “non esistono" per esso» (Possibilità e libertà, cit., p. 27).

11 Anche qui abbiamo cercato di tener presente la totalità degli scritti di A. in proposito, cercando di ripensarli in un'ottica compolessiva.

12 La polemica «antiromantica» non implica necessariamente, almeno dal punto di vista del suo autore, «ateismo». Essa vuol rappresentare soltanto il rifiuto di quelle prospettive religiose o filosofiche in cui la divinità appare come costituente necessario e garante indispensabile dell'umanità dell'uomo e della sua realizzazione storico-esistenziale.

13 Ad. es il concetto romantico di un sapere storico assoluto, basato sulle categorie di totalità e necessità, risulta contraddittorio, per A., con il modo d'essere storico dell'uomo e con gli strumenti della sua comprensione storiografica.

14 Com'è noto, l'interpretazione del pensiero dello «ultimo» Heidegger come forma di «romanticismo rovesciato» è stata sostenuta, in Italia, soprattutto da P. Chiodi (il maggior discepolo di A.) nell'opera L'ultimo Heidegger, Torino. 1960, 2 ed.