Sull'attualità del pensiero di Nicola Abbagnano

Vi sono temi del pensiero di Nicola Abbagnano che, al di là della loro "attualità" o meno, risultano particolarmente significativi e meritevoli di non cadere nell'oblio. Fra i molti possibili, mi limito a sottolinearne alcuni.

La concezione dell'uomo in termini di problematicità e possibilità. Per Abbagnano l'uomo è costituito da un insieme di possibilità ed è, lui stesso, la possibilità delle possibilità in suo possesso. Tale situazione costituisce la "struttura” dell'esistenza e si identifica con il modo d'essere proprio dell'uomo, inteso come problematicità autoreferenziale, ossia come un problema che attraverso le sue soluzioni si riconferma come tale: «L'uomo vive essenzialmente come problema, il problema è il suo modo d'essere fondamentale, la sua esistenza specifica». Da ciò il privilegiamento della "categoria delle possibilità", intesa come il principale strumento di analisi e interpretazione del reale.

L'insistenza sulle nozioni di scelta, progetto e rischio. La visione problematicistica dell'esistenza si concretizza in una "filosofia della libertà" incentrata sulle nozioni di scelta, progetto e rischio. Abbagnano ritiene che la scelta, sia pur all'interno di una serie più o meno ampia di condizionamenti, sia operante a tutti i livelli della nostra umanità ed esista solo dove il possibile presenta le sue "alternative": «Di fronte al necessario non c'è nulla da fare né da dire. Il possibile e la libertà: di fronte a esso l'uomo può scegliere». Ne segue che l'uomo – secondo una tesi che Abbagnano è andato approfondendo lungo un percorso di pensiero che va da La struttura dell'esistenza ai Ricordi di un filosofo – non è soggetto a una forza necessitante che ne determini univocamente il comportamento e lo sviluppo, ma è un processo sempre aperto che può procedere in direzioni diverse e contraddittorie. Da ciò la teorizzazione del rischio e della progettazione "responsabile".

L'affermazione dei limiti dell'uomo e l'accettazione lucida e appassionata della finitudine. Il pensiero di Abbagnano è permeato da un "senso del limite" che si esprime nell'energico rifiuto di ogni infinitizzazione dell'esistenza e delle sue capacità: «Vedo nell'uomo la finitudine e nell'accettazione della finitudine l'unica vera scelta». Questa "ermeneutica della finitudine" (per usare un'espressione che Abbagnano, in un corso universitario degli anni Quaranta, adopera in riferimento a Kant) non riveste significati negativi, tragici o nichilistici, poiché nell'esistenzialismo "positivo", com'è noto, il limite non è soltanto scetticamente constatato, ma anche criticamente accettato e posto alla base di ogni possibilità o valore dell'esistenza. Anzi, l'originalità dell'"esistenzialismo critico" di Abbagnano, che si mantiene in una posizione equidistante dall'ottimismo e dal pessimismo, è stata proprio quella di aver cercato di fondare la "validità" (o la "positività") dell'esistenza sui "limiti" stessi dell'esistenza: «Di quelle stesse categorie filosofiche, che erano servite ai primi esistenzialisti e ancor più crudamente agli esistenzialisti letterari, a proclamare l'insufficienza dell'uomo, lo scacco di ogni sforzo verso l'essere, lo scandalo dell'esistenza. Abbagnano si era valso e si sarebbe valso […} per tracciare le linee di un umanesimo costruttivo, lontano tanto dall'ottimismo trionfante come dal pessimismo eroico» (N. Bobbio). Questa sottolineatura della costituiva finitezza dell'uomo (su cui Semerari e Santucci hanno scritto alcune delle pagine più belle) spiega la specifica fisionomia del neoilluminismo di Abbagnano, il quale, pur appellandosi alla ragione e ai suoi poteri, rifiuta ogni enfatizzazione di essa. perseguendo l'obiettivo di un illuminismo che «smessa l'illusione ottimistica dell'illuminismo settecentesco e il pesante dogmatismo del razionalismo ottocentesco, vede nella ragione ciò che essa e, una forza umana diretta a rendere più umano il mondo». Un (neo)illuminismo, è bene aggiungere, consono a un tipo di esistenzialismo che non intende partecipare né «al mito della Scienza, né al mito dell'Anti-scienza, né al mito della Tecnica, né al mito dell'Anti-tecnica».

La tesi della stretta connessione tra esistere e filosofare e l'idea della filosofia come "uso del sapere a vantaggio dell'uomo". Secondo Abbagnano non ci sarebbe la filosofia dei filosofi, cioè non ci sarebbero i problemi tecnici della filosofia se l'uomo non fosse condotto a filosofare dalla sua stessa vita di uomo: «trattare oggi della natura della filosofia significa ritenere già fermamente stabile un punto essenziale: la necessità per l'uomo, per ciò che egli per ciò che "deve" essere, del filosofare. Perché, se la filosofia fosse il giardino di Epicuro dove si potesse vivere in disparte, al di fuori delle vicende e dei colpi duri, noi dovremmo ritenerla, oggi, indegna di noi. Ma essa non è il giardino di Epicuro. Non è l'aristocratica esercitazione di pochi spiriti oziosi, né la stratosferica regione dove si possa trovare rifugio e conforto per i mali e le delusioni della vita. C'è un senso – ed è un senso assai antico – in cui il filosofare si identifica con l'esistenza stessa dell'uomo e in cui (come Platone voleva) non si può essere uomo senza essere filosofo». Nel dopoguerra (parallelamente all'«incontro con Dewey») la convinzione secondo cui l'uomo non possa fare a meno di vivere e pensare senza, con ciò stesso, di filosofare si accompagnata alla tesi della filosofia come "attività direttiva" e strumento di modificazione e correzione del mondo naturale e umano. Tesi che Abbagnano non abbandonerà più. «Secondo un'interpretazione abbastanza diffusa del suo pensiero, condivisa da taluni suoi discepoli» – chiesi un giorno ad Abbagnano – «la filosofia si ridurrebbe sostanzialmente a metodologia. Lei è d'accordo con questa interpretazione?» «No» – rispose Abbagnano. «Questa lettura e troppo riduttiva. Per me la filosofia è piuttosto "metodologia dell'esistenza", cioè riflessione globale sulla vita e sui modi, le "tecniche" atte a orientarla». (Con questa espressione "inedita", socraticamente fiorita nel corso di una conversazione, Abbagnano non faceva che ribadire quel concetto della filosofia come "guida della scelta" che è tipica del suo pensiero.) Coerentemente con l'immagine della filosofia come “uso del sapere a vantaggio dell'uomo", l'ultimo Abbagnano è andato sviluppando un tipo di "filosofia applicata" (come l'ha definita lo studioso ungherese Szabo Tibor) che si misura con i problemi della vita quotidiana (l'amore, il matrimonio, l'educazione dei figli ecc. ) e che si rivolge, tramite i giornali, a un pubblico più vasto di quello degli specialisti. In questa pratica della filosofia come "scuola di saggezza" – che non può essere ridotta a una forma di moralismo spicciolo scaturente da una sorta di involuzione senile del suo pensiero – Vattimo ha giustamente scorto «l'esito logico e coerente» di tutta l'opera di Abbagnano.

La proposta di una concezione storiografica rispettosa della specificità e pluralità del discorso filosofico. Rifiutandosi di ridurre la storia della filosofia ad "altro” da essa (a storia economica, sociale. culturale ecc.), Abbagnano ha difeso la specifica identità e la reale consistenza del discorso filosofico e ha concepito lo storico della filosofia non come un arrogante depositario di qualche verità assoluta intorno al passato, ma come un "modesto dossografo" – nel senso etimologico e non dispregiativo del termine – impegnato a riportare le idee altrui nel modo più onesto e scrupoloso possibile (l'espressione fra virgolette e nostra, ma piacque al Maestro). Inoltre, contro la tendenza (tipica di certa storiografia idealistica, cattolica e marxista) a privilegiare "una" posizione filosofica a scapito delle restanti, Abbagnano ha insistito sulla "pluralità" delle voci che compongono il grande dialogo della storia della filosofia e sul principio del "rispetto" di tutte le posizioni filosofiche, ossia dei vari modi in cui l'uomo può interpretare la realtà e atteggiarsi di fronte a se stesso, agli altri, al mondo e a Dio. Certo, Abbagnano non è sempre stato fedele a queste direttive e, in certi casi, ha privilegiato taluni filosofi rispetto ad altri (ad esempio i "filosofi della possibilità" rispetto ai "filosofi della necessità") e ha fatto pesare le proprie opzioni teoretiche o la propria antipatia verso determinate figure o correnti (ad esempio nei confronti di Hegel o della Scuola di Francoforte). Ma ciò costituisce un limite "di fatto" della sua storiografia filosofica, che non infirma la validità "di diritto" degli ideali a cui essa si ispira (e a cui "deve" ispirarsi, a nostro avviso, chiunque voglia prendere come modello la sua opera).