«Discrimen»
7 agosto 2020

Dal dovere di restare al diritto di andarsene.
A proposito di un recente studio di Giovanni Fornero

di Fausto Giunta

La vasta letteratura sulle questioni di fine vita si è arricchita di un recente contributo di Giovanni Fornero, filosofo e saggista che non ha bisogno di presentazioni. L'opera, dal titolo Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria (Utet, 2020, pp. 812), riserva ampio spazio anche alla dottrina penalistica. Il riferimento è in particolare a quell'orientamento di pensiero che, alla luce dell'impianto costituzionale, ha riletto i confini operativi delle fattispecie incriminatrici di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), ricavando ambiti significativi di liceità, in parte confermati, oggi, dalla giurisprudenza della Consulta.

La compiuta, capillare e documentata ricostruzione del dibattito interdisciplinare non è però l'unico merito del ponderoso volume. Attraversando il pensiero altrui, l'Autore individua con pacatezza le tematiche di fondo, proponendo e argomentando la sua tesi con chiarezza: la vita costituisce un diritto del quale il titolare può disporre in via esclusiva. Ne consegue che – come esplicita il sottotitolo – la rinuncia a vivere, motivata dalle insostenibili sofferenze della malattia, non costituisce solamente una libertà incoercibile; si tratta piuttosto di un vero e proprio diritto, la cui effettività, può richiedere, in casi estremi, la collaborazione dell'ordinamento. Prendendo in prestito parole anticipatrici altrui: “Verrà il giorno – deve venire – in cui il diritto di morire sarà riconosciuto come un diritto dell'uomo, ancor più importante e più incontestabile di quello di mettere un pezzo di carta nell'urna elettorale. E quando il tempo sarà maturo, ogni malato incurabile (…) avrà diritto all'aiuto del medico, se desidera la liberazione” (Hjalmar Söderberg, Il dottor Glas, 1905, trad. it., Treviso, 2004, p. 75). Per Fornero – e non solo per lui – quel giorno è già arrivato. Il diritto di andarsene può leggersi nell'impianto personalistico della nostra Costituzione.

Se questo è il fil rouge dello studio, l'aspetto che preme mettere in luce adesso è un altro, e attiene al metodo. Fornero non cerca soluzioni di compromesso, non è animato dal fine "politico" di trovare percorsi condivisi; affronta piuttosto la materia scalandola dal suo versante più scosceso e divisivo, facendo cioè un discorso di principio dalle radici lunghe e profonde, aperto al complesso dei dilemmi di fine vita. Resta invece sullo sfondo il problema della liceità del suicidio in tutti gli altri casi: dal suicidio c.d. logico o filosofico, quale rinuncia a una vita immeritevole di essere vissuta, al sacrificio di sé come atto eroico o espressione di protesta sociale ovvero ancora come riscatto morale, addirittura ritualizzato. La morte che si sceglie quale alternativa alle sofferenze della malattia è cosa diversa dal suicidio sorretto da tutte le restanti e tra loro diverse motivazioni.

Il problema delle scelte finali non è certo nuovo. Attingendo a una sua risalente e cruda rappresentazione, basti pensare al romanzo di Dalton Trumbo (E Johnny prese il fucile, 1939, trad. it., Milano, 2003, da cui l'omonimo film del 1971 realizzato dallo stesso scrittore nel ruolo di regista). La storia è ambientata al tempo della prima guerra mondiale. Il protagonista è un giovane soldato rimasto privo dei quattro arti, cieco, sfigurato, senza l'udito e l'uso della parola, ritenuto incosciente, ma in verità presente e lucido. Questo "tronco umano che vive", così definito dal chirurgo che lo aveva salvato, riesce a instaurare un contatto con una compassionevole infermiera e successivamente, attraverso l'alfabeto morse, a comunicare con un ufficiale medico, al quale, per quanto più interessa, chiede di essere ucciso.

La vicenda ben può sovrapporsi ad altre più recenti, le quali si ripresentano con maggiore frequenza per l'accresciuta intraprendenza della medicina. Il paziente talvolta, e più spesso, guadagna vita, talaltra incappa in uno stallo esistenziale; a volte la sua vita ha una qualità persino buona, altre volte il contrasto della malattia comporta un prezzo elevato in termini di sofferenza. Si pensi, segnatamente, alle patologie tumorali.

Ebbene, con riguardo a quest'ultima casistica, il vero elemento di novità è rappresentato oggi dagli sviluppi della terapia del dolore. La sedazione terminale profonda, pur senza lambire la scelta del se e del quando morire, integra il ventaglio delle opzioni concernenti il come morire, ponendosi già quale diritto del paziente al contenimento delle sue sofferenze, ossia a morire con dignità. Per l'opinione maggioritaria, il diritto di decidere come morire non è assimilabile a una scelta suicidaria. Così il lasciarsi morire rifiutando le cure. Questa “via d'uscita”, però, riguarda i pazienti terminali, ossia destinati a una morte prossima. In tali contesti eliminare il dolore non significa provocare la morte, ma arrendersi al progredire inesorabile della malattia.

Diverso è il caso delle sofferenze disumane, connesse a una condizione di vita non terminale. Alcune vicende sono divenute oltremodo note e non è necessario richiamarle con i nomi dei loro sfortunati protagonisti. Nessuno può farsi giudice del valore della vita altrui. Ma della propria è diverso, quando vivere equivale a un atto di eroismo che si deve rispettare, ma che sarebbe inumano imporre. In queste situazioni la scelta della morte non equivale a diserzione dai vincoli affettivi e sociali. Essa esprime una visione personalistica dell'esistenza che, nell'ammettere il diritto di vivere, non può negare quello speculare di non esistere, senza indebolire il primo. L'aiuto nel morire, richiesto dal paziente, suona come appello alla solidarietà e alla pietas. Quando non c'è altra via d'uscita da una condizione di estrema e ininterrotta sofferenza, "cosa è peggio? Togliere la vita a una persona che vuole vivere, o la morte a una persona che vuole morire?" (Jo Nesbø, L'uomo di neve, 2007, trad. it., Torino, 2017, p. 533).

Anche chi non la pensa come Fornero apprezzerà senz'altro l'avvedutezza della sua analisi, che, in questa sede, si guarda bene dall'assumere l'abusata contrapposizione tra bioetica laica e bioetica cattolica quale matrice culturale del dibattito tra i fautori del diritto di morire e i teorici della indisponibilità della vita. Come precisa Fornero, infatti, esiste un consistente filone di pensiero laico, che converge sulla tesi dell'indisponibilità di sé. I condizionamenti metagiuridici sono indubbi, ma essi non sono soltanto di natura religiosa. Giocano un ruolo decisivo preferenze ideologiche di segno opposto, per un verso, paternalistico-collettivistiche, per l'altro personalistiche, quest'ultime, a loro volta, declinate ora in senso solidaristico, ora in chiave più spiccatamente individualistica. Negarne l'influenza sul nostro tema significa impoverirlo del suo importante retroterra culturale.

Del resto, contrariamente a quanto sostenuto, la tesi dell'illiceità strutturale del diritto di morire non ha un fondamento intrinsecamente giuridico. L'idea che la vita non sia un valore tra i valori, ma sia piuttosto il presupposto di ogni diritto è certamente corretta, ma essa non implica come suo precipitato l'indisponibilità dei diritti che su di essa si fondano, come dimostra la pacifica esistenza di altri diritti personalissimi disponibili. Senza contare che il diritto di morire è l'altra faccia del diritto di non soffrire, un diritto tutt'altro che nichilista. In ogni caso, il dibattito, proprio perché influenzato da premesse metagiuridiche legittime e rispettabili, non può dirsi al riparo dalla petizione di principio.

Nelle odierne società pluralistiche e multiculturali è difficile cogliere un punto di vista prevalente. Non è secondario, però, che mentre la tesi della disponibilità della vita lascia il paziente libero di non disporne, quella opposta gli nega l'estrema ed eccezionale via d'uscita. La prima concezione non è impositiva, la seconda sì.

Come si diceva, Fornero evita ragionamenti paludati e desume il diritto di morire dal valore del paziente come persona, centro a se stesso, ricostruendo, alla luce della dottrina giuridica internazionale e della recente giurisprudenza anche convenzionale, la scelta di morire come diritto fondamentale in presenza di precise e stringenti condizioni, che assicurino contro abusi e strumentalizzazioni, che nulla hanno a che fare con la tutela della persona e della sua dignità.

Così circoscritta, la rinuncia all'esistenza supera l'obiezione del c.d. piano inclinato (o pendio scivoloso), che paventa una progressiva svalutazione del bene supremo della vita e una cinica apertura alla deresponsabilizzazione in primis della classe medica (alla quale va comunque riconosciuto lo speculare e insindacabile diritto all'obiezione di coscienza). Il dovere di solidarietà rimane pur sempre prioritario. Il paziente, quale soggetto "debole", va trattenuto e sostenuto rinsaldando la nostra presa sulla sua esistenza. Riconoscere un eccezionale diritto di andarsene non significa mettere alla porta nessuno, ma rispettare una libera scelta, quale male minore. I diritti fondamentali non basta interpretarli; vanno vissuti, onde evitare di scivolare sul versante opposto del pendio, che non è solitario. Torna alla mente la vicenda narrata da Trumbo (E Johnny prese il fucile, cit.) e il suo triste epilogo. L'infermiera che assiste il paziente, impotente di fronte a tanta sofferenza ed emotivamente provata, tenta di ucciderlo, ma viene scoperta e allontanata. Negatagli la morte, il giovane soldato continuerà a vivere, per anni, nell'immobilità assoluta e nell'isolamento sensoriale, sedato e abbandonato.