«La Nuova Bussola Quotidiana»
16 maggio 2020
Risposta a Scandroglio
di Giovanni Fornero
Leggendo l'intervento di Scandroglio sul mio libro Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria, balza agli occhi il fatto che, pur nel dichiarato e fermo dissenso, lo studioso ne evidenzi anche taluni pregi. Metodo che contrasta con quanto succede spesso oggigiorno, in cui, a chi non la pensa come noi, si nega ogni possibile riconoscimento. Venendo al contenuto del suo articolato intervento, osservo subito che invece di concentrarsi sugli aspetti propriamente giuridici e giusfilosofici del volume – che ne costituiscono la trama e la novità, come attesta l'ampio spazio dedicato alla questione di un possibile "diritto" alla morte assistita – egli preferisce discutere il libro da un punto di vista filosofico, alla luce di quella specifica filosofia che è il personalismo metafisicamente fondato. Tant'è che le tematiche su cui lo studioso si sofferma sono soprattutto la libertà e la dignità, ritenute fondative rispetto alle tematiche di cui si occupa il volume.
Per quanto riguarda la libertà (su cui Scandroglio fa una lezione di filosofia tomista, incentrata sulla tesi della subordinazione della libertà a una verità ontologica precostituita), constato con rincrescimento che, a un certo punto, mi attribuisce tesi che nel volume non sostengo affatto. Egli scrive ad esempio che «per Fornero il libero arbitrio, comunque sia esercitato, è il bene», addossandomi la convinzione che «ciò che scelgo per il solo fatto di essere scelto è bene». Una tesi di questo tipo, la quale implica che qualsiasi scelta, purché compiuta con libertà, è legittima, non fa parte del mio repertorio mentale. Infatti, nel volume non giustifico qualsiasi scelta (perché allora dovrei giustificare tutto e il contrario di tutto) e non scollego affatto le scelte esistenziali dalle loro motivazioni razionali e sociali.
Nella fattispecie, lungi dal presentare la scelta della morte medicalmente assistita come un'opzione gratuita e quindi dal ritenere che l'eutanasia si auto-giustifichi, la configuro come una scelta ragionata, che si nutre di una serie di argomenti etici, bioetici, filosofici e giuridici. Il mio interlocutore lo sa bene e correttamente lo notifica, ma replica che non è sufficiente che una scelta sia motivata da alcuni principi per dichiararla moralmente valida, in quanto occorre che i principi abbiano un fondamento oggettivo di tipo ontologico. Concetto che, tradotto in pratica, implica la discutibile convinzione che solo una certa impostazione etica (quella metafisica in cui Scandroglio si riconosce) è razionalmente valida, mentre tutte le altre scaturiscono esclusivamente dalla voluntas arbitraria del soggetto.
Per quanto concerne la controversa idea di "dignità", la differenza di fondo fra il modello indisponibilista di Scandroglio e il modello disponibilista dello scrivente può essere sintetizzata dicendo che per il primo la dignità della persona implica necessariamente la dignità e bontà della vita, mentre per il secondo la dignità della persona non implica necessariamente la dignità e bontà della vita. Più in dettaglio, il modello di Scandroglio ritiene che, posta l'idea della "preziosità" della persona umana, si deve per forza ammettere che la vita è sempre buona e dotata di valore e quindi sempre meritevole di essere vissuta. Tant'è che in un suo precedente intervento egli scrive che «la vita vale sempre la pena di essere vissuta» e che «l'atto di togliersi la vita non è mai atto consono alla dignità personale, cioè non è mai atto adeguato, proporzionale alla preziosità della persona».
Viceversa, per il modello di chi scrive, il fatto di accogliere l'idea della dignità della persona umana, di tutte le persone umane, comprese quelle fragili e malate – idea che, comunque giustificata sul piano teorico, sta alla base della civiltà giuridica contemporanea e dei principi democratici che la ispirano – non esclude che le persone, di fatto, possano trovarsi in condizioni di vita "non dignitose", cioè che contrastano con la loro riconosciuta dignità. In altri termini, secondo questa prospettiva, se è vero che «la persona è sempre degna» è altrettanto vero che «la vita non è sempre degna», in quanto le concrete condizioni di vita possono essere in contraddizione con la dignità propria della persona. Tant'è che in determinate circostanze la vita, agli occhi delle persone che la vivono, non appare più come un bene, ma come un male, non più come un valore, ma come un disvalore, non più come una realtà degna di essere vissuta, ma come una realtà indegna di essere vissuta. In tali circostanze non sono quindi le persone ad essere indegne, bensì le negative condizioni di vita in cui esse sono costrette a vivere. Al punto che è proprio in nome della dignità della persona che queste ultime vengono contestate e si arriva a difendere il diritto di congedarsi con dignità dalla vita, soprattutto quando essa, per usare le parole di Montanelli, si riduce soltanto a «un calvario di sofferenza senza speranza».
Questo modello di pensiero – basato sul principio che mentre la dignità è sempre irrinunciabile, la vita, in determinati casi, può essere rifiutata o sacrificata – era già presente nei classici greci e latini (che a una vita indegna preferivano una morte degna) e risulta condiviso non solo da ampi settori della cultura laica contemporanea, ma anche, si badi bene, da taluni credenti. Ad esempio da quei cristiani (si pensi a Küng e ai valdesi) che diversamente dalla Evangelium vitae (secondo cui «la vita è sempre un bene») e dalla Familiaris consortio (secondo cui «la vita umana anche se debole e sofferente è sempre uno splendido dono del Dio della bontà») reputano che ci sono situazioni–limite in cui la vita umana, per usare le parole di Paolo Ricca, diventa così «sub-umana o dis-umana» da essere «irriconoscibile come dono di Dio». Con la conseguenza che «paradossalmente, l'eutanasia non smentisce la vita come dono di Dio, al contrario interviene proprio per evitare che questo dono diventi irriconoscibile come tale». Questo significa che il fatto di essere cristiani e di credere in Dio non comporta a priori il rifiuto delle pratiche eutanasiche, in quanto esistono credenti che reputano più "cristiana" la figura di un Dio misericordioso che non vuole né l'azzeramento della libertà di scelta delle persone di fronte alla morte, né una insensata continuazione delle loro sofferenze.
A parte queste problematiche di tipo teologico, i due macromodelli citati, i quali rimandano a modi diversi di rapportarsi alla nozione di dignità, conducono a conseguenze differenti, che in riferimento all'odierno dibattito pubblico ritengo importante esplicitare. Come, del resto, ho fatto nel mio libro in cui più che dilungarmi sulla loro fisionomia teorica – su cui si sono versati fiumi di inchiostro senza pervenire ad una reale pacificazione – ho preferito mettere in evidenza i loro effetti pratici e giuridici.
Chiaramente, se si assume l'ottica indisponibilista di Scandroglio, a chi reputa la propria vita in contrasto con la propria dignità personale e non vuole più vivere (vedi il caso dj Fabo) di fatto, in nome della dignità – o meglio: di una determinata concezione della dignità – viene imposto di vivere, lasciandogli, quale unica via percorribile, le cure palliative. Tant'è che, come ha ribadito di recente il cardinal Bassetti, per chi si muove in questa ottica dottrinale «va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente». Punto di vista, questo, che pretendendo di valere non solo sul piano etico ma anche giuridico (nella misura in cui difende il divieto penale della morte assistita) si pone inevitabilmente contro la struttura pluralistica della società odierna, nel cui ambito, come non avrebbe senso imporre la "dolce morte" a tutti, così – sulla base di determinate concezioni filosofiche o religiose non condivise da tutti – non ha senso vietarla a chi la considera una soluzione auspicabile.
Alla fine del suo scritto Scandroglio afferma che prevedere l'eutanasia volontaria solo in determinate condizioni e in ossequio a determinate procedure risulta in contraddizione con la prospettata autodeterminazione dell'individuo. A suo giudizio, chi difende la libertà di ricorrere all'eutanasia dovrebbe avere la coerenza di sostenerla in modo incondizionato, rifiutando l'idea che siano il legislatore e la società a fissarne le condizioni di esercizio. In altri termini, per Scandroglio si danno solo due possibilità logicamente fondate: o vietare in modo categorico l'eutanasia oppure permetterla in modo incondizionato.
Come si vede, si assiste qui a un manifesto privilegiamento delle dialettiche di tipo speculativo rispetto alle dialettiche di tipo giuridico. Infatti, come si può ipotizzare che il fautore responsabile di una pratica come l'eutanasia volontaria (la quale esula dalla dimensione privata del suicidio in quanto implica l'intervento di terzi) pensi ad essa come a qualcosa che non ha bisogno di essere, in qualche modo, limitata e procedimentalizzata? Ossia di essere giuridicamente subordinata a determinate condizioni socialmente stabilite? Fermo restando, come chiarisco nel mio libro, che queste ultime, le quali possono essere più o meno restrittive, non rappresentano dei dogmi fissi e immutabili, ma l'oggetto di un dibattito pubblico in progress che, in concomitanza con gli sviluppi della coscienza collettiva e giuridica, le rende sempre suscettibili di essere ridiscusse, in vista di possibili allargamenti e modifiche.