«Notizie di Politeia»
23(2007), n. 88

Contestualizziamo la bioetica

di Gilberto Corbellini

Quale è il contributo del libro di Giovanni Fornero Bioetica cattolica e bioetica laica al confronto culturale sulle origini, l'evoluzione e lo statuto della bioetica in Italia? Non quello di svelare la povertà sul piano teoretico della bioetica cattolica confessionale. Cioè dì quella bioetica che Fornero tende, indubbiamente con qualche forzatura, a far corrispondere alla bioetica cattolica tout court, ma che di fatto si riduce a un semplicistico sistemino, formulato con un livello di qualità filosofica poco più che liceale, che è il personalismo ontologico di Monsignor Elio Sgreccia. Tale "paradigma" bioetico, che in Italia viene predicato in un certo numero di corsi di laurea di materie medico-sanitarie da una piccolo esercito di giovani e ferventi bioeticisti cattolici, tutti sanno che si è imposto non tanto per i suoi intrinseci meriti speculativi quanto per il fatto che è stato adottato dalla Chiesa Cattolica a supporto argomentativo delle campagne contro i princìpi liberali dell'etica e del diritto occidentali.

Quello che Fornero ha invece portato finalmente alla luce è il sentimento di frustrazione e l'atteggiamento quasi risentito verso gli approcci laici di alcuni bioeticisti cattolici, filosoficamente piuttosto preparati e quindi consapevoli della povertà filosofica della bioetica cattolica ufficiale, nonché della superiorità in termini di miglioramento della convivenza civile e del benessere dei cittadini delle etiche che riconoscono il pluralismo (non il relativismo!) dei valori e delle aspettative. Ovvero delle concezioni etiche le quali, indipendentemente dal riferimento a istanze mondane o metafisiche, riconoscono che solo salvaguardando la laicità del quadro normativo istituzionale è possibile affrontare e risolvere le controversie sui valori in gioco nel contesto delle scelte personali riguardanti la vita e la morte, la salute e la malattia. Di fatto, questi bioeticisti hanno contestato e contestano la connotazione dicotomica con argomenti che in realtà, paradossalmente, rafforzano e se mai rendono anche più inquietante il groviglio di ipocrisie e di avvitamenti retorici per nascondere una realtà ben fotografata da Fornero quando dice che "tali autori, non essendo così cattolici (cioè così allineati sulle posizioni ufficiali), da non essere anche, in senso lato, laici (cioè allineati su talune istanze della cultura secolare) e non essendo così laici da non essere anche, in senso lato, cattolici (cioè in sintonia con talune istanze di fondo del cattolicesimo) non si riconoscono né nell'uno né nell'altro di tali schieramenti. Da ciò la loro propensione a negare che la bioetica contemporanea possa essere adeguatamente rappresentata, a livello teorico, da tali correnti" (Fornero, in Bioetica, 1, 2007; p. 128).

In realtà non è tutta o tanto la bioetica contemporanea a prestarsi a questa prospettiva perché la rappresentazione di Fornero possa assumere forti aspetti di plausibilità. E in primo luogo l'evoluzione del dibattito bioetico in Italia, nonché il fatto che in ragione del ruolo che l'etica cristiana e quella cattolica svolgono nell'economia delle decisioni politiche nei paesi occidentali, negli ultimi decenni per quanto riguarda le questioni controverse nell'ambito della biomedicina la maggior parte dei confronti svoltisi a livello pubblico, di fatto il confronto in occidente tende a essere particolarmente acceso e quindi diventa più visibile quando si cimentano le istanze confessionali e quelle laiche sui temi per così dire controversi della bioetica.

Chi ha un approccio davvero laico (e su questo Fornero è inattaccabile), non ha difficoltà a riconoscere che la tradizione della bioetica cattolica è molto più ricca e complessa rispetto alla povertà e contraddittorietà teoretica del personalismo ontologico imposto(si) dottrinariamente, sulla base di operazioni politiche contingenti nonché in ragione della sua efficacia comunicativa su piani culturalmente più limitati. E non ha difficoltà a riconoscere che, storicamente, è stata la tradizione della teologia e della filosofia morale cattolica, calata nelle dinamiche sociali e politiche degli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta a produrre il fenomeno culturale politico, nonché l'instituzionalizzazione di una nuova impostazione dell'etica medica1.

In tal senso, il libro di Fornero caratterizza i contenuti della bioetica dominanti in Italia, ma non completamente il processo che ha prodotto l'impoverimento filosofico della dottrina bioetica ufficiale, persino alla luce delle posizioni espresse negli anni Cinquanta del secolo scorso da Pio XII. A mio parere chi ha fatto, a modo suo, più luce sulle ragioni che hanno prodotto un'involuzione culturale della bioetica cattolica, con una componente confessionale che si accredita quale unica e autentica fonte delle opzioni moralmente accettabili dalla Chiesa Cattolica, ovvero dal Vaticano, circondata da un arcipelago di posizioni più o meno tollerate purché rimangano politicamente marginali, è stato Sandro Spinsanti. In Le ragioni della bioetica (Edizioni CIDAS, Roma, 1999) Spinsanti, che ha tenuto il primo insegnamento di etica medica nella Facoltà di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli" a Roma nell'anno accademico 1983-84, sostiene che la ragione va cercata nella chiusura dottrinale imposta dal precedente pontefice alla riflessione morale. Più specificamente, sarebbe stata l'impostazione rigida, intransigente e "parrocchiale" data alla teoria morale nell'enciclica Veritatis splendor del 1993 a vanificare la conquista, raggiunta con il Concilio Vaticano II e con la dichiarazione Dignitatis Humanae del 1965, dei valori dell'autonomia morale, della libertà e del pluralismo teologico. Tale chiusura, verosimilmente ispirata da o concordata con l'allora cardinale e oggi Papa Ratzinger, ha prodotto per Spinsanti una situazione che di fatto trova un consenso in due gruppi molto distanti tra loro: i cattolici fondamentalisti, arroccati in una posizione di difesa, e quei rappresentanti del pensiero laico che desiderano un avversario ben identificato e ricondotto a posizioni standardizzate. Questa semplificazione avrebbe allontanato la bioetica italiana dalla ricerca di un'etica civile, che si articola con la morale individuale in una dialettica di etica del "minimo morale" ed etica dei "massimi morali". Spinsanti ovviamente ritiene che benché delegittimati, molti cattolici, per i quali la chiesa è chiesa, e non 'parrocchia', stanno "pensando e agendo in quella direzione, praticando davvero la bioetica e rifiutando di genuflettersi di fronte ai dogmi dell'etica confessionale".

È interessante anche il fatto che sia stato proprio un cattolico come Spinsanti tra i primi a muovere alcune delle critiche più efficaci alla bioetica statunitense che veniva importata in Italia. Egli ha proposto una critica del principialismo, vale a dire della bioetica di matrice statunitense che ha pragmaticamente risolto (di fatto rimovendoli) i conflitti metaetici, individuando nel riferimento ai princìpi (di autonomia, beneficità e giustizia) e nel bilanciamento delle diverse istanze che da tali princìpi discendono, il criterio guida per la soluzione dei problemi e le scelte. La bioetica basata sui princìpi rispondeva fondamentalmente all'esigenza di tutelare le persone dagli abusi nel contesto delle sperimentazione clinica, nonché appariva adeguata per una società naturalmente pluralistica come quella statunitese. Tuttavia, l'approccio si è diffuso perché ritenuto, da filosofi e teologi che non sapevano davvero alcunché circa la realtà di una situazione clinica, abbastanza comodo da praticare e insegnare come dimostra il proliferare di manuali che propongono dei veri e propri algoritmi decisionali – quasi sempre del tutto improbabili – che pretendono di rispondere a tutte le situazioni. Ovvero, i nuovi professionisti della bioetica hanno tranquillamente ignorato il fatto che nella maggior parte dei contesti clinici (soprattutto nelle situazioni terminali, ma ancor questo più varrà per i problemi etici sollevati dalla medìcina predittiva) un'impostazione astratta e computazionale dei problemi bioetici accentua le difficoltà nei rapporti tra medico e paziente, ovvero tra medicina e società, invece di contribuire ad attenuarle.

Sempre Spinsanti ha lanciato negli ultimi anni la sfida, quanto mai urgente raccogliere soprattutto in Italia, di lavorare alla costruzione di una bioetica non più concepita come "un gendarme" a guardia dei medici o, va aggiunto, come un dispositivo umanistico per ripristinare nel medico quel supplemento d'anima che molti ritengono inaridito dalla formazione tecnico-scientifica sempre più asfissiante e nozionistica. Suggerendo che la bioetica trovi un ruolo educativo vero nella formazione del medico. Che, comunque, può avvenire solo rafforzando l'insegnamento con una prospettiva storica ed epistemologica che aiuti a collegare il livello della conoscenza scientifica con quello dell'istanza morale. Ma, soprattutto, non limitandosi a rivolgere la sua azione educativa solo ai medici, e cominciando a investire anche il vasto pubblico per promuovere lo sviluppo di una conoscenza più adeguata dei problemi medico-sanitari.

Un ulteriore aspetto poco percepito e apprezzato dai lettori e commentatori del libro di Fornero, forse a causa della deriva analitica che anche in Italia ha intrapreso la filosofia morale e quindi la bioetica, è l'uso euristico della prospettiva storica per dirimere la natura delle controversie. Credo che, insieme al cosiddetto "empirical turn in bioethics"2, la valorizzazione dell'approccio storico in bioetica, non tanto per scopi meramente retorico-argomentativi quanto per capire meglio la natura stessa dei problemi bioetici, sia una delle novità più interessanti della riflessione degli ultimi anni. Per esempio, il bioeticista statunitense Robert Baker ha messo chiaramente in evidenza il carattere "astorico" (adamantly ahistoric, scrive) dei trattati di bioetica e del modo in cui la bioetica viene discussa e praticata dalla nuova generazione di bioeticisti americani. E, secondo Baker, la conseguenza di questo modo astorico di insegnare e praticare la bioetica concorre, se non addirittura rappresenta la fonte, dei problemi di perdita di credibilità che la bioetica sta cercando di affrontare, soprattutto negli Stati Uniti. I bioeticisti americani, infatti, si trovano sotto assedio da ogni parte per la mancanza di standard professionali, di affidabilità e di responsabilità dei consulenti di etica che servono nei vari comitati. Chiunque abbia seguito il dibattito svoltosi sull'American Journal of Bioethics nel 2005 sulla necessità e la funzione di un codice etico per í bioeticisti, nonché chiunque abbia letto le sempre più frequenti critiche che da oltre dieci anni vengono mosse ai comitati etici, sia sul piano del funzionamento sia sul piano dell'utilità, ovvero per il fatto che stanno condizionando in modo negativo la ricerca clinica, può rendersi facilmente conto che è cominciato a spirare un vento meno favorevole per la bioetica.

Baker accusa i bioeticisti nordamericani di non avere più, a causa del prevaler di un orientamento troppo filosofico e razionale prodotto appunto da una carenza di preparazione storica, la capacità di negoziare cambiamenti morali utili nel contesto in cui viene praticata la medicina, mentre il loro obiettivo sarebbe essenzialmente quello di affermare la forza delle argomentazioni. Insomma, lo scopo sarebbe diventato quello di vincere una competizione logico-filosofica, piuttosto che cercare di trovare soluzioni di compromesso che comunque migliorino la qualità del rapporto medico-paziente e quindi la probabilità di soddisfacimento delle istanze in gioco3. L'evoluzione e lo stato della bioetica in Nord America non sono assolutamente paragonabili a ciò che è accaduto e sta accadendo in Italia. Tuttavia non è meno vero per l'Italia il fatto che i bioeticisti non confessionali risultano largamente inefficaci a confronto di quelli confessionali nell'ottenere scelte politiche che aumentino gli spazi di libertà personale. E ciò è in parte dovuto all'incapacità dei bioeticisti laici italiani di utilizzare strategie più pragmatiche nell'affrontare le sfide. Insomma, Stephen Toulmin vedeva lontano quando, nel 1973, scrisse il famoso saggio intitolato "Come la medicina ha salvato la vita all'etica", quantomeno nel senso che alla fine quello del bioeticista è diventato, in occidente, un mestiere sempre più redditizio sul piano degli avanzamenti accademici e visibilità pubblica. Ma non aveva previsto che bioetica avrebbe finito col diventare una minaccia per la libertà della scienza e per la capacità della medicina di continuare a migliorare la qualità della vita delle persone.

Jonathan Baron, uno dei più importanti studiosi di psicologia morale e che ha 'servito' ín diversi comitati etici negli Stati Uniti, sostiene da tempo e ora in un libro dall'esplicativo titolo, Against bioethics, che la bioetica ha creato un sistema decisionale che favorisce scelte irragionevoli. Cioè, che lungi dal ridurre i rischi di abusi della ricerca e della pratica medica, ne ha creato dì nuovi. Senza contare le censure e manipolazioni politiche della medicina e della scienza, che utilizzano ragionamenti incoerenti prodotti dai bioeticisti per condannare gli avanzamenti scientifici e tecnologici usando il principio di precauzione, o gli argomenti della disuguaglianza e dello spreco, o definendo impropriamente in chiave morale termini come embrione o cellula staminale, al solo scopo di condannare come innaturali e quindi immorali le procedure che rientrano nella definizione. I bioeticisti, afferma Baron, sono diventati dei "preti secolari, a cui i governi e le istituzioni" guardano come a delle guide morali. In realtà sono quasi sempre privi di qualsiasi autorevolezza e autorità, e "si permettono di giudicare tutto sulla base di mere intuizioni o ragionamenti" che quando diventano regole producono più danni che benefici. L'attacco di Baron è circostanziato. Nel senso che egli illustra con tanto di esempi i danni che sono stati già causati i diversi campi: dall'uso delle tecnologie riproduttive e dei farmaci per ovviare a curare deficit naturali, dalle decisioni di fine vita, al consenso informato, ai temi della privacy e dei conflitti d'interesse, alla ricerca farmacologia, alle strategie utilizzate per allocare le risorse economiche. Senza trascurare le politiche mondiali dì promozione della salute.

Fortunatamente per lui, Baron non vive in Italia! Dove forse un giorno si faranno i conti su quante persone sono state danneggiate, hanno sofferto o sono morte per il combinato ideologico, non solo religioso, che istruisce l'impianto quasi del tutto deontologico della cultura bioetica italiana. Esattamente quell'impianto che ha ispirato la legge sulla fecondazione assistita e quella sulla droga, che ritarda la legge sul testamento biologico e non ammette che si discuta operativamente di eutanasia. Perché Baron dimostra che le conseguenze perverse dipendono proprio dall'impostazione deontologica che è prevalsa nel momento storico in cui il dibattito si istituzionalizzava. I famosi princìpi della bioetica – rispetto delle persone, beneficità e giustizia – sono, infatti, regole troppo grossolane e troppo spesso in contraddizione tra loro, o addirittura al loro interno, per provvedere un'euristica decisionale efficace.

Il "principialismo" ha cercato un sintesi tra teorie deontologiche ed utilitaristiche, trasfigurando in chiave deontologica alcune intuizioni che di fatto hanno una valenza utilitaristica in quanto massimizzano, benché grossolanamente, l'utilità. I consigli dei bioeticisti, come mostra Baron, producono anche esiti buoni. Ma si fondano essenzialmente su giudizi intuitivi e sulla tradizione. E non tengono in alcun conto le conseguenze delle azioni. Tra cui il fatto che la bioetica ha sostituito la medicina come fonte di un nuovo paternalismo. Così, i comitati etici possono assumere, pur con le migliori intenzioni, orientamenti del tutto irragionevoli, che impediscono la ricerca clinica, ad esempio sui bambini, costringendo a sperimentare i farmaci per bambini su adulti. Che corrono rischi che non dovrebbero correre e possono anche morire, come è accaduto al povero Gelsinger nel 1999. In ogni caso i comitato etici stanno ormai creando solo ostacoli, che rendono quasi impraticabile la ricerca clinica senza ricorrere ai soldi dell'industria. Come ha denunciato la European Organization for Research and Treatment of Cancer attraverso un appello ai parlamentari europei, che evidenzia gli effetti perversi della Direttiva 2001\20\EC sui comitati etici che sta bloccando la ricerca sul cancro.

Perché la bioetica è diventata così "noiosa", per dirla con Albert Jonsen4, ma soprattutto così dannosa per la ricerca e la pratica biomedica? Le tesi storiografiche circa le origini della bioetica tendono a scotomizzare il fatto che fino a metà degli anni Settanta il dibattito sulle implicazioni etiche della ricerca biologica e medica ha visto protagonisti anche gli scienziati. Questi, soprattutto negli anni Sessanta discutevano con una certa frequenza il problema di come le nuove conoscenze scientifiche entrassero in conflitto con i valori diffusi nella società e come la cultura scientifica stessa poteva contribuire a superare tali conflitti. Progressivamente gli scienziati sono scomparsi come voce attiva dal dibattito. O meglio si sono trovati a doversi prevalentemente difendere dalle accuse di minare i valori morali preesistenti, mentre temi come quello sollevato da Jacques Monod circa l'eticità della conoscenza scien tifica sono diventati pura curiosità storica. Anche l'oncologo van Potter era più vicino, come modo di ragionare oltre che per formazione, al filone degli scienziati che si interrogavano su come le scienze biologiche potevano contribuire a rinnovare la cultura e i valori morali.

Nei paesi con una forte tradizione scientifica e una comunità di scienziati politicamente influente è stato comunque trovato un equilibrio tra istanze bioetiche e attività scientifica. Recenti studi hanno mostrato che il dibattito bioetico ha svolto per esempio funzioni diverse in differenti contesti. Nel senso che l'istituzionalizzazione/professionalizzazione della bioetica ha contribuito in alcune situazioni a proteggere la scienza dal ricorso a leggi o regolamentazioni emanate sull'onda di risposte emotive che potrebbero condizionare la libertà di ricerca e il progresso scientifico e tecnologico. In questo senso, la bioetica ha funzionato negli Stati Uniti e anche in Gran Bretagna. Soprattutto per quanto riguarda il diffuso fenomeno di moralizzazione delle biotecnologie è del tutto evidente che la bioetica è servita, positivamente, a categorizzare le paure diffuse nella società, prendendo sul serio preoccupazioni spesso frutto di incomprensioni o enfatizzazioni dei rischi e riconducendole progressivamente nel solco di un approccio più razionale. In questo modo si possono leggere per esempio gli sviluppi del dibattito in alcuni paesi europei. Ma talvolta la bioetica ha anche funzionato come terreno di potenziale confronto e dialogo democratico tra istanze scientifiche e società. L'esperienza delle consensus conferences nei paesi nord-europei si declina in questo senso.

In Italia, la bioetica non ha invece contribuito a gettare un ponte tra scienza e società. Sfruttando le debolezze strutturali e lo scarso impatto politico-culturale della comunità scientifica, nonché alimentata dai pregiudizi antiscientifici diffusi all'interno delle tradizioni culturali cattolica e crociano-marxista, di fatto ha fomentato la paura per la scienza e la diffidenza verso gli scienziati. In questa azione è stata ed è ovviamente favorita e assecondata dai modi improvvisati, indecisi ovvero senza un background conoscitivo e progettuale che hanno caratterizzato il governo politico della ricerca e dell'istruzione in Italia negli ultimi quarant'anni. Il legame, per certi versi piuttosto inquietante, che si è andato stringendo tra una bioetica antiscientifica e una politica senza progettualità in materia, sta mettendo a rischio la libertà di ricerca, produce mostruosità normative come la legge sulla fecondazione assistita e connota il pressappochismo moralistico della maggior parte dei documenti del nostro Comitato Nazionale per la Bioetica.

Senza illudersi che in Italia possa maturare a breve uno spirito più anglosassone nei rapporti tra bioetica e scienza, che cosa si potrebbe fare? Forse, quello che servirebbe abbastanza urgentemente sarebbero indagini empiriche mirate a definire meglio i contesti e i comportamenti bioeticamente connotati, nonché i valori e le motivazioni che entrano in gioco nei giudizi e nelle scelte. Sarebbe inoltre importante riflettere sul ruolo dell'insegnamento della bioetica, cercando di valutare quanto e come incidono, rispetto agli obbiettivi piuttosto ambiziosi, i corsi di bioetica sull'atteggiamento del medico e dei professionisti dell'area sanitaria. Vale a dire se migliorano la comunicazione tra il paziente e l'universo umano della sanità pubblica. Non sarebbe inoltre così insensato promuovere anche in Italia, sul modello delle consensus conferences, il confronto tra istanze politico-istituzionali e mondo della ricerca scientifica e bioetica su temi definiti e non generici. Servirebbe ad aggiornare le idee e costringerebbe tutti al confronto con la realtà. Ragionando a partire da dati concreti si potrebbero evitare le secche su cui negli ultimi anni si sono costantemente arenati i tentativi di dialogo tra laici e credenti sui temi della bioetica. Anche perché mentre i bioeticisti di questo Paese erano presi dalle loro autoreferenziali diatribe ideologiche, il mondo è andato avanti. I cittadini si sono costruiti dei giudizi morali ben definiti e spesso non pertinenti, su diverse questioni. Per esempio, hanno sviluppato valutazioni etiche negative verso gli alimenti prodotti con organismi geneticamente modificati e un ottimismo irragionevole verso i test genetici5. Se si riuscisse a capire che il compito della bioetica non è imporre qualche particolare visione morale, ma, più utilmente, studiare la realtà dei problemi di un paese e quindi fornire elementi conoscitivi per dare concretezza al dibattito e favorire la responsabilizzazione, forse si creerebbero anche le condizioni per un clima più costruttivo; oltre che per scelte davvero volte a promuovere il benessere delle persone.

Note

1 J. K. Walter and E. P. Klein (eds), (2003), The Story of Bioethics: From Seminal Works to Contemporary Explorations, Georgetown University Press.

2 Cfr. P. Borry, P. Schotsmans, K. Dierickx, (2005), "The birth of the empirical turn in bioethics", Bioethics, 19(1):49-71.

3 R. Baker (2002), "Bioethics and History", Journal of Medicine and Philosophy, 27: 449-476.

4 A. Jonsen (2000), "Why has bioethics become so boring?", The Journal of Medicine and Philosophy, 25: 689-699.

5 A mio giudizio dovrebbero suscitare qualche riflessione autocritica nei bioeticisti i risultati dei sondaggi eurobarometrici, da cui risulta appunto come i cittadini europei esprimano valutazioni morali estremamente definite su diverse applicazioni biotecnologiche ma a partire da livelli preoccupanti di analfabetismo scientifico. Spicca per esempio il contrasto fra le valutazioni moralmente positive in assoluto nei riguardi dei test genetici e la condanna degli Ogm vegetali, a partire da una comune base di conoscenze che vede il 70% dei cittadini italiani ignorare che tutti gli organismi contengono geni.